Le rime amorose dell’Etrusco. Una riflessione sul manoscritto inedito V.C. 183

Alfonso de’ Pazzi detto l’Etrusco, poeta del XVI secolo, è conosciuto principalmente per le sue composizioni a carattere carnevalesco (Castellani 2006) e viene menzionato nelle opere dei contemporanei in virtù della sua stramberia caratteriale, ma niente di tutto ciò gli ha valso un qualche riconoscimento letterario. Il soprannome attribuitogli è sintomatico dell’indecifrabilità e della confusione insite nella sua scrittura: così come la lingua dell’antico popolo etrusco la grafia del Pazzi è ai limiti della comprensibilità, riflesso di un animo inquieto e di posizioni letterarie atipiche e distorte. Questo disordine ha scongiurato fino a tempi recenti ogni tentativo di approccio al suo materiale poetico, rimasto infatti quasi del tutto inedito nonostante l’estensione.

Sulla base dei pochi studi fin qui portati avanti, ciò che non ci aspetteremo mai da un personaggio come l’Etrusco è sicuramente l’avvicinamento a una trattazione poetica seria, a tematica amorosa, contaminata soprattutto dell’esperienza petrarchista del periodo, ma proprio uno dei tanti manoscritti autografi del Pazzi tradisce la nostra supposizione. Il manoscritto Vincenzo Capponi 1831 infatti, conservato presso la BNCF, conserva una serie di rime amorose dell’Etrusco che sembrano configurarsi come raccolta organica. Il manoscritto, in buono stato di conservazione, contiene un gruppo di poesie molto esteso composto di 56 sonetti, 67 madrigali, 3 epigrammi, 3 inni e 1 componimento solo abbozzato, di natura prevalentemente amorosa. Il dato interessante è la presenza cospicua di correzioni e cancellature nonché di componimenti doppi che testimoniano un intenso lavoro sul testo e sull’intera raccolta: probabilmente ci troviamo di fronte proprio alla copia di lavoro dell’autore, destinata a diventare il testo da dare alle stampe.

A differenza degli altri manoscritti autografi fino ad oggi esaminati, il manoscritto capponiano ci rilascia una compattezza e un ordine insoliti per il Pazzi, una leggibilità che si riflette anche nella grafia e nell’impaginazione delle liriche. Insomma il Pazzi sembra aver avuto davvero l’intenzione di confezionare un prodotto da divulgare, di restituire al pubblico un libretto di rime secondo il gusto petrarchista del tempo, di esibire infine, magari di fronte al duca Cosimo, la volontà di inserirsi in un contesto letterario ruotante attorno l’Accademia Fiorentina.

D’altronde come ci suggerisce Aldo Castellani il «presunto petrarchismo» del Pazzi non si configura proprio come una «necessaria concessione alle tendenze letterarie dell’epoca»? (Castellani 2006: 101 e seguenti).

La forma del manoscritto V.C. 183 (abbiamo già accennato a cancellature, varianti e componimenti in doppia versione) ci spinge inoltre a credere che il Pazzi avesse intenzione di realizzare un canzoniere, di dare sistematicità alle poesie scritte sull’esempio forse del modello per eccellenza, ossia Petrarca.

Il dalfino innamorato: una considerazione sulla raccolta

Il Pazzi, in apertura alla raccolta, offre al lettore del suo manoscritto un suggerimento di lettura, una sorta di autopresentazione: «Il Dalfino innamorato della diva virtù»: il delfino, simbolo araldico della famiglia Pazzi, altro non è che Alfonso stesso, celato dietro all’immagine dello stemma familiare. Il procedimento può assumere in questo contesto una duplice valenza andando a rappresentare da un lato una volontà autobiografica, dall’altro il desiderio di anonimato, di distinzione rispetto alle opere precedenti in cui compariva il nome di battesimo: Alfonso de’ Pazzi autore di canti satirico-burleschi e il Dalfino Innamorato poeta serio; due io distinti che però dialogano, come vedremo, all’interno della raccolta, senza mai separarsi o distinguersi davvero.

Questa postilla sembra inoltre sortire l’effetto di una captatio benevolentiae, un tentativo di giustificazione davanti ai propri lettori di quel giovenile errore che aveva caratterizzato anche l’esperienza petrarchesca, divenendo così il documento della confessione di un uomo.

La parola diva invece, e il concetto che vi è legato, percorre i componimenti come una sorta di filo rosso, alternandosi tra il riferimento alla donna amata e l’allusione alla scrittura poetica a cui sembra legarsi il sintagma diva virtù: una donna e una virtù inseguite con pari tenacia e sofferenza. Che il Pazzi abbia tentato per tutta la vita di distinguersi all’interno del panorama non solo politico ma anche letterario risulta chiaro dalla sua biografia, ma come abbiamo già detto nessuna delle sue opere giunse alle stampe.

Il secondo componimento assolve il compito di presentare ai lettori il soggetto della raccolta poetica: una donna con qualità straordinarie, una creatura quasi divina, celeste e terrena allo stesso tempo, un’entità capace di far ‘traboccare’ le carte del cantore. In linea col petrarchismo imperante del primo Cinquecento, il richiamo immediato è ovviamente alla Laura petrarchesca, del resto non esiste componimento in cui il soggetto poetico del Pazzi non si nutra della linfa del Canzoniere: la donna amata è allo stesso tempo gioia e dolore per il poeta, emblema di salvezza ma anche causa di perdizione e smarrimento. Attraverso una fitta rete di legami intertestuali ci accorgiamo che la musa del Pazzi possiede tutte le caratteristiche appartenute un tempo a Laura (le trecce bionde sparse al vento, la voce soave, i modi gentili), ma non solo: la poetica amorosa del Nostro sembra inserirsi perfettamente nel solco di una tradizione lirica ormai consolidata che include non solo l’autorevole Petrarca, ma anche la poesia amorosa fiorentina del Due e del Trecento. Da un lato quindi l’archetipo petrarchesco che àncora madonna Laura al qui ed ora, all’itinerario di vita di un uomo peccatore, rendendola anche per la prima volta finalmente definibile da parole terrene; dall’altro l’impalpabilità, la figura eterea e forse non reale delle dame della tradizione precedente. Anche per questo motivo la donna virtuosa del Pazzi sembra molte volte avvicinarsi di più alla Beatrice dantesca, incorniciata da quella dimensione onirica e ‘moralizzante’ tipica della Vita Nova (e in parte della Commedia).

Nel Canzoniere Laura, essendo prima di tutto donna terrena e figura concreta del viaggio di vita del poeta, viene citata attraverso un sistema di nominazione che, anche se ricorre alla tecnica provenzale del senhal, non lascia spazio a dubbi: Laura, l’aura, l’auro o lauro sono sicuramente spie della presenza della donna, presenza che può anche manifestarsi sotto forma di alone sacro, di ispirazione poetica e di fama letteraria. Medesima sorte sembra essere capitata all’amata di Alfonso, anche se il nome reale della donna non compare mai nella raccolta: attraverso un’inversione di significato già presente nel modello l’immortal diva, la diva donna, la donna altera e il Sole possono essere considerati parimenti senhal della fama agognata e della fanciulla amata. A tal proposito un fatto non trascurabile è l’interesse del Pazzi nei confronti di controversie letterarie come ad esempio quella riguardante la reale esistenza della Laura petrarchesca, fu proprio Alfonso infatti a proporre la questione all’interno dell’Accademia Fiorentina e a ricevere risposta.

Purtroppo però, disponiamo di davvero poche informazioni biografiche per poter avanzare un’ipotesi sull’identità della donna cantata dal Pazzi: le fonti ci informano soltanto del matrimonio con Camilla di Piero del Giocondo (parente della celebre Monna Lisa) citata in un sonetto presente nel ms. Magl. VII 534 e trascritto dal Pedrotti nella sua monografia (Pedrotti 1902):

Antica graziosa alma Camilla,

Non pensi tu che io per ogni etate

T’abbi a far viver lieta, alma e gioconda?

(Masi 2006: 308 nota 34).

Nelle rime del ms. VC 183 però, il nome Camilla non compare mai e del resto dobbiamo considerare l’eccezionalità che avrebbe rappresentato una raccolta dedicata alla moglie: a parte il caso di Vittoria Colonna, che dedica tutti i sonetti amorosi al compianto del marito morto, solitamente le figure amorose sono personaggi ideali, a metà tra il sogno e la veglia, allegorie finissime oppure protagoniste di amori non corrisposti o illeciti; è il caso di Laura, di Beatrice e di molte altre donne e uomini.

Amore e poesia sulla barca della vita

Se tentare di svelare l’identità della donna protagonista del canzoniere pazziano, ammesso che essa sia esistita, è ad oggi impossibile, si può invece sicuramente fare una riflessione sul concetto di amore al quale Alfonso fa riferimento e sulle tematiche che vi ruotano attorno. In questo senso, la lirica amorosa del Pazzi si alimenta di una doppia linfa vitale: il dialogo intertestuale, fitto e puntuale, con le rime di Petrarca e l’interpretazione umanistico-rinascimentale che era stata fornita della sua opera. Per questo motivo la raccolta si inserisce perfettamente nel solco di una tradizione petrarchista ben consolidata (e potremmo dire abusata) che vede Firenze e in particolare l’Accademia Fiorentina quali centri importanti di sperimentazione. Saturi dell’esperienza umanistica, nell’Accademia Fiorentina le lezioni sul Canzoniere diedero vita a una vera e propria ‘scienza amorosa’ nutrita del platonismo ficiniano, tendente alla definizione della vera natura d’Amore: gli amanti, accumunati dalla medesima esperienza dolorosa, possiedono gli stessi sintomi del mal d’amore (Baldacci 1974).

L’amante Alfonso è così, come tutti gli altri amanti, in balia di quel sentimento che allo stesso tempo lo tiene in vita: morte e vita, fuoco e ghiaccio, giorno e notte sono segni simultanei nel corpo e nell’anima del poeta-amante. Colui che ama si trova sempre in una condizione di semi-morte, Hond’ ei vicino alle penultim’ ore (9), però ciascun che vien in tua presenza / semi vivo divien’ tropp’ ivi stando (10), i’ per ciò veder renasch’ e mmoro / qual picciol fiamma suol tra vari venti (104); amare è l’unica vita possibile, ma se amare equivale a morire allora la vita diviene esperienza di morte. Il legame amoroso da liberazione dei sensi diviene, talvolta, schiavitù insopportabile, nodo avvolgente: così nudo mi tiene in nodo avolto, (la donna amata) / oh nodo quando fia ch’io ti discioglia? L’uomo è servo della donna e del dio Amore che, nella sua raffigurazione classica, lancia dardi infiammati: m’ha il cor trafitto con acute frecce (14); Perché sì feri dardi / inusitati e nnuovi / per voi convien’ ch’io provi? (44).

Nonostante questo, il poeta innamorato non può fare a meno di tendere verso questa donna divina fonte di luce salvifica e garante di un’esperienza che eleva e separa dal resto degli uomini incapaci di un sentimento tanto nobile.

Attorno alla definizione e alla descrizione dell’esperienza amorosa si sviluppa una tematica ricorrente all’interno della raccolta del Pazzi: la scrittura poetica e la relativa fama. Quella vana ricerca dell’alloro poetico (e non solo) che tanto lo ossessionò in vita sembra riproporsi, spesso adombrata da figure retoriche, nella vicenda amorosa e di vita che Alfonso cerca di raccontare: è un’ispirazione poetica che nasce dalla donna amata e nella donna amata trova il massimo punto di estensione. La vista della diva fa sì che il poeta concepisca ed esprima concetti nobili che una volta giunti sulla carta divengono inadeguati al soggetto cantato: il Pazzi definisce sempre il suo stile come umile, rozzo e basso non solo riutilizzando il classico topos modestiae ma soprattutto in virtù di un giudizio lucido sulla propria abilità poetica che attinge dalla propria biografia. La penna diviene allora il mezzo per espiare il proprio dolore ma anche per elevare il proprio status:

e poscia ch’io pensai ricco tornarme

in ver lo borgo mio povero e basso

subito ch’io pensai in piuma alzarme,

[…] (Orsini 2019-2020: 74).

Il sentiero che conduce alla fama (che spesso si confonde con quello verso la salvezza) è però irto e difficile, e questo Alfonso ha potuto tristemente constatarlo nella sua vita paragonata come Petrarca (e tanti altri) a una barca in balia delle onde:

honde sospesa ssta la barca mia,

qual pres’ ardir per farli largh’onore

di solcar lito qual mai vist’avea

e ddispersa si trova in alto mare;

[…] (Orsini 2019-2020: 133).

Echi danteschi tra passato e presente

Le caratteristiche della poesia amorosa del Pazzi se da un lato rientrano perfettamente nella ‘monotonia petrarchesca’, dall’altro respirano quell’aria di cambiamento avviatasi negli anni tridentini: il secondo intertesto prediletto da Alfonso è infatti il poema dantesco: l’urgenza di mimesis si rivolge proprio alla Commedia e grazie ad essa riesce a descrivere con più profondità non solo la nuova dimensione penitenziale ma anche l’esperienza d’amore vissuta. Dante rivive nella raccolta del Pazzi e lo fa attraverso la ripresa di sintagmi propri soprattutto dell’universo infernale: concavo globo, machina mundiale, profondo abisso, mondo tetro. L’inferno personale di Alfonso prende avvio proprio a partire da quello smarrimento interiore che causò all’uomo Dante la perdita della retta via, quel turbamento dell’anima che genera la spinta verso l’alto:

L’infiamato sentier nel cui mi trovo

mi sforz’ognior’ al ciel gridar «omei »

sperando nel posser degli alti iddei

che m’abbin’ a gustar far gioco nuovo,

[…] (Orsini 2019-2020: 65).

In assenza di un Virgilio però, il poeta può contare soltanto sulla propria donna, eletta a guida nel mare tempestoso della vita. La donna straordinaria descritta da Alfonso è infatti molto vicina alla figura santa ed eletta di Beatrice, scorta nell’ultimo mondo ultraterreno, approssimandosi quasi alla perfezione della Vergine: nel sonetto dodicesimo l’apostrofe rivolta all’amata, per l’elevazione del tono, ha delle somiglianze con la preghiera che San Bernardo rivolge alla Madonna:

Anche il tema della poesia si alimenta talvolta di allusioni dantesche e la scrittura del poeta necessita, come il Dante imbrattato dalla fuliggine infernale, di purificarsi:

[…]

allor la mente mia volendo dire

la loda sua divien pront’ e ssottile

e scacciando da sé ogni atto vile

move l’orghan che fa il tuo sentire;

ma il corpo che già quasi semi morto

si trova nelli raggi onde la voce

non vien tal che la piuma si paventa, […]

(Orsini 2019-2020: 52).

La difettosa navicella dell’ingegno del Pazzi insieme a quella barca-vita in alto mare tenta continuamente di elevarsi e di redimersi: la ricerca della via maestra infatti, iniziata come per Dante nel tetro fondo, prosegue in direzione ascensionale in un movimento che tende sempre verso il paradiso. Alfonso riesce ad assorbire tutto quel timor di Dio che tanto agitava il Dante peccatore e questo è ampiamente visibile attraverso il recupero di espressioni che alludono soprattutto al concetto di Dio nella Commedia: quel ch’el tutto regge; il sommo ben; sacro monte; fattura. La poesia e la donna amata partecipano del desiderio del poeta di elevarsi fino al Paradiso in una geografia cosmologica assolutamente dantesca: ond’io ne fui rapit’ al terzo cielo; che mi ghuida poggiand’ in ll’alto seggio; a chi desia poggiar’ nell’alta chiostra;empiro ciel.

La presenza di Luigi Alamanni

I riferimenti intertestuali, rintracciati e analizzati nella raccolta, si spiegano perfettamente tenendo conto della formazione culturale dell’autore e delle influenze artistiche e letterarie che agirono sulla lirica cinquecentesca. Le rime del Pazzi però, quantitativamente e qualitativamente, instaurano un legame particolare con un autore ben preciso, ossia Luigi Alamanni, i cui riferimenti sono così precisi e puntuali da non poter essere ignorati.

L’Alamanni, esiliato da Firenze a causa dei Medici, trascorse buona parte della sua vita in Francia, presso Francesco I, condizione che gli permise di dedicarsi anche all’attività letteraria: l’edizione delle Opere Toscane fu pubblicata proprio a Lione nel 1532-1533 e dedicata al sovrano francese. Nel 1539 ebbe l’occasione di tornare in Italia e incontrò alcuni letterati come il Varchi, il Bembo e Vittoria Colonna. Nella sua opera è presente una sezione di rime amorose dedicata all’amore per una donna genovese, la Ligura Pianta dei suoi versi: è proprio a partire da questa sezione che sembra prendere avvio la relazione intertestuale creata dal Pazzi. Dalle fonti in nostro possesso è impossibile scorgere punti di congiunzione tra le due esistenze anche tenendo in considerazione la prolungata lontananza dell’Alamanni da Firenze, dove invece il Pazzi restò per quasi tutta la sua vita. Non è però improbabile la conoscenza da parte di Alfonso delle sue poesie anche da un punto di vista cronologico: quando le Opere Toscane furono pubblicate il Pazzi aveva ventitré anni e poteva ben conoscere, per formazione letteraria, la fama dell’autore.

In molteplici occasioni i riferimenti all’opera dell’Alamanni sono poco più che allusioni, altre volte invece il legame si fa più puntuale coinvolgendo l’incipit e il corpo centrale (il corsivo è mio):

Morte come potesti

menar tua falce amara

ver lei, dal mondo via più cosa cara?

Aimè, lasso, in quella

che nn’ha portat ogni mio dolce seco,

rigida fosti e fera,

e pperò più non spera

mia vita in questa, con quella

cosa ch’al mondo cieco

amai, or dunche fa’ girmi insieme seco

(Orsini 2019-2020: 71).

Come potesti, o Morte,
aver così l’altr’ier di sasso il core,
che guastasti all’April sì vago fiore?
Credo, benché piangendo, il colpo fèro
menasti (ahi lasso) in quella che n’ha portato ogni mio dolce seco.
Oh doppia crudeltà, ché la mia bella
donna, il mio lume intero

Entrambi i poeti rivolgono un’apostrofe addolorata alla Morte che ha falciato le vite delle donne amate: la donna misteriosa di Alfonso e la Ligura Pianta dell’Alamanni.

Il legame intertestuale risulta fertile in molteplici altre occasioni: «Più veloc’ animal non pasce l’erba / di quel che dai primi anni / tolsi a sseghuir per questa selva acierba» (Orsini 2019-2020: 195) – «Più veloce animal non pasce l’erba / Di quell’onde seguir la traccia intendo» (Orsini 2019-2020: 195) e «Quanta dolcieza mai unqua repose» (Orsini 2019-2020: 195)«Quanta dolcezza il mondo unque ne diede» (Orsini 2019-2020: 195); «Già sette volte revoltando il sole» (Orsini 2019-2020: 195) – «Già nove volte rivolgendo il sole» e molti altri (Orsini 2019-2020: 195).

Un’ulteriore relazione, che lega ancora una volta il Pazzi e l’Alamanni tra loro e con lo stesso Petrarca collocandoli inoltre anche all’interno del filone del petrarchismo è quella tra il madrigale Valle chiuss’, alti colli e il sonetto Valle chiusa, alti colli e piagge apriche. In entrambi i casi viene rievocata la vicenda del Canzoniere con toponimi propri della geografia petrarchesca: la valle citata è ovviamente quella di Valchiusa nei pressi di Avignone, teatro dell’amore tra Petrarca e Laura che ha ispirato il celebre Chiare, fresche et dolci acque. L’Alamanni decide di rievocare quella vicenda amorosa inserendo nel suo sonetto il riferimento esplicito a entrambi gli amanti e al luogo: «Che del Tosco maggior fido ricetto / Fuste gran tempo, quando viva il petto / Gli scaldò Laura in queste rive amiche» (Orsini 2019-2020: 196); lo stesso fa il Pazzi, anche se in maniera molto più soggettiva: «Valle chiuss’, alti colli / che siet’ al mio bel sol fido ricietto, / or dit’a llui ch’a sé rescald’ il petto» (Orsini 2019-2020: 196).

L’Opere Toscane hanno agito sul canzoniere del Pazzi anche a livello metrico ed è interessante notare che questo è avvenuto nei riguardi di uno schema metrico assolutamente innovativo: l’hymno. Luigi Alamanni si dimostra in questo senso molto incline alla sperimentazione recuperando la struttura delle odi o canzoni pindariche suddivise in tre sezioni (chiamate da lui ballata / contraballata/ stanza) e costruendo una forma molto originale di inno composta da una monoversificazione di settenari con verso conclusivo in endecasillabi.

I componimenti Unica diva e ssole; Dolze mia fiamma e foco; Stella più ch’el sol bella presenti nella raccolta del Pazzi possono essere considerati degli inni proprio alla maniera di Luigi Alamanni.

La scarsità di fonti e studi su Alfonso de’ Pazzi ci impedisce di stabilire, in questa sede, l’entità e il motivo dei legami evidenti tra le rime amorose del Pazzi e le Opere Toscane dell’Alamanni, dei quali l’unica certezza è solo a livello cronologico. L’opera dell’Alamanni, di quasi venti anni più anziano del Pazzi, fu pubblicata e circolò quando Alfonso era molto giovane, e la fama dell’Alamanni era già diffusa. Un elemento ricorrente e di straordinario interesse ai fini del nostro studio è di nuovo il legame strettissimo di Alfonso con la tradizione autoctona fiorentina: l’Alamanni visse per molti anni lontano dalla patria proprio a causa delle sue opinioni politiche fortemente antimedicee, in virtù quindi di un attaccamento fortissimo con la tradizione repubblicana fiorentina. Questo potrebbe aiutare a chiarire, in futuro, la posizione politica del Pazzi sempre rimasta ambigua o nascosta, forse per semplice opportunismo politico. Alfonso si dimostra ancora una volta fortemente municipale, legato a una visione del mondo limitata alla sola Firenze, soprattutto in campo letterario: così come per il filone burlesco si rifà a un Burchiello, nella lirica è influenzato da un ‘fiorentinissimo’ Alamanni.

La struttura della raccolta: canzoniere o silloge?

Questi studi preliminari non ci permettono di stabilire con certezza se il Pazzi avesse intenzione di dar vita ad un vero e proprio canzoniere o se ci troviamo semplicemente di fronte ad una silloge slegata.

Dal punto di vista quantitativo la raccolta del Pazzi (129 componimenti in totale) non sembra deludere le aspettative rientrando nella media delle raccolte coeve: Bembo (165), Della Casa (89), Cellini (142), Gambara (67), Poliziano (128); niente però in confronto con il Canzoniere petrarchesco.

Le scelte lessicali del Pazzi, quasi sempre nella direzione di un tono tragico ed elegiaco, riescono a mantenere stabile l’intonazione generale dell’opera: il lettore viene guidato nella lettura dal filo rosso della tematica amorosa e non percepisce cesure nette tra un componimento e l’altro. Inoltre, l’utilizzo di un repertorio piuttosto limitato di termini che si ripetono molte volte nel corso della raccolta riesce a garantire una sorta di stabilità stilistica dell’autore: basti pensare alla monotonia con cui ci si riferisce alla donna amata (donna, diva e sole con l’aggiunta di aggettivi qualificativi) o mediante cui si allude alla condizione dolorosa del poeta. La relazione e il parallelismo tra testi anche distanti nella raccolta si attiva quasi sempre proprio in relazione alla componente lessicale: viene adottata spesso la stessa terminologia per descrivere situazioni diverse e molte immagini vengono ripetute.

Da un punto di vista strutturale i 55 sonetti si alternano ai 67 madrigali senza una logica apparente e senza un’alternanza degna di nota: da questa prospettiva la cura per l’insieme del Pazzi sembra veramente scarsa e poco ragionata. Il madrigale, anche quando cerca di mantenere l’ambientazione agreste e pastorale, finisce in realtà per essere utilizzato anche per la trattazione di argomenti più ‘alti’ che necessiterebbero dell’estensione di un sonetto, ad esempio, o meglio ancora di una canzone (metro assente peraltro nella raccolta). Alfonso sembra quasi abusare numericamente della forma madrigale (presente nell’archetipo petrarchesco solo quattro volte) forse preferita per la sua brevità e libertà di schema, nella sua versione cinquecentesca: spia sia della trasandata organizzazione tematico-stilistica della raccolta sia probabilmente di una mediocre capacità poetica che non riesce a dilungarsi oltre.

Abbiamo più volte detto che il ms. VC 183 è, tra le altre cose, anche il tentativo del Pazzi di cimentarsi nella lirica petrarchesca dell’epoca, pertanto la tematica amorosa rappresenta una costante fissa che funge da grande motivo unificante. Attorno al tema centrale si snodano varie sezioni, per tutta la lunghezza della raccolta, che specificano la relazione amorosa: la schiavitù del poeta, i sintomi del mal d’amore, la crudeltà e l’incostanza della donna. Queste sezioni non riescono però a creare dei raggruppamenti tematici ben definiti, non essendo intervallate da componimenti che affrontano temi differenti e non avendo appigli cronologici; inoltre è quasi del tutto assente il carattere di occasionalità che caratterizza, ad esempio, molti componimenti petrarcheschi e riuscirebbe nel nostro caso a scandire più regolarmente l’andamento delle liriche. Uniche eccezioni a livello di originalità tematica sono i componimenti che ruotano attorno all’evento della morte della donna e quelli che hanno un sottofondo spirituale, ma anche in questo caso, per il numero ridotto e la collocazione sparsa, non riescono a creare un raggruppamento degno di nota.

La caratteristica che più contraddistingue un canzoniere è sicuramente lo sviluppo narrativo, l’andamento progressivo (nel tempo e nello spazio) di una vicenda vissuta in prima persona dall’io narrante che coincide con la mano che scrive: persona e personaggio si fondono all’interno di un viaggio poetico che è anche itinerario di vita. Le rime di Alfonso sembrano tentare talvolta, nel loro disordine, la costruzione del racconto di un’esperienza di vita: un uomo che, attraverso il documento di una storia d’amore dolorosa, descrive la propria ricerca di fama nella poesia. Il tentativo è però zoppicante e manca di armonia sia a livello strutturale che contenutistico, dimostrando una volontà di architettura narrativa ancora acerba. La parte iniziale della raccolta sembra partire con le migliori intenzioni e dopo il sonetto proemiale l’autore inizia la descrizione di quella donna straordinaria e di quella relazione che tanto lo tiene schiavo; dopodiché si procede a zig zag giungendo fino al ‘blocco della morte’. La sezione di componimenti che inizia con il diciannovesimo e procede fino al ventiduesimo sembra generare un cambio progressivo di intonazione, l’atmosfera sembra intristirsi: si viene così a sapere, a soli venti componimenti dall’inizio, che la Morte ha strappato al poeta la donna amata. Questa sospensione tematica non genera però, in realtà, nessuno stacco narrativo e i componimenti successivi ci presentano la lode di una donna ancora in vita e sempre più crudele verso i sentimenti del poeta. Nonostante questo è possibile che il Pazzi avesse nella propria mente l’intenzione di strutturare la propria raccolta sull’esempio del Canzoniere, ossia bipartendo l’itinerario di vita del protagonista tra la sezione in vita della donna e quella in morte: l’evento della morte, infatti, anche se disordinato a livello posizionale, è per il poeta uno snodo fondamentale nella propria vicenda intima.

Osservando invece la raccolta da un punto di vista diverso, possiamo scorgere talvolta la presenza di un’angoscia interiore di tipo religioso-morale: l’io poetico sembra più volte tendere a Dio e al cielo, all’interno di un tentativo di espiazione dal peccato. L’uomo Alfonso che, smarritosi nell’amore, ricerca la retta via attraverso la scrittura poetica.

Infine, il componimento che chiude la raccolta, anch’esso di massima importanza nella composizione di un canzoniere, vede Alfonso congedarsi dal proprio scritto attraverso una preghiera (forma da molti autori per l’epilogo) rivolta al proprio libretto di poesie, così personale e intimo da essere stato composto dal basso ingegno dell’autore, che adesso se ne discosta.

In conclusione, il manoscritto del Pazzi non ha le caratteristiche di un vero canzoniere: la raccolta è pressoché monotematica, non vengono sviluppati argomenti diversi da quello amoroso; non vi sono riferimenti o dediche a personaggi illustri; non vi è una sperimentazione stilistica. Le rime consegnate al ms. VC 183, pur non restituendoci un canzoniere finito, documentano però l’intenzione futura del Pazzi di dar vita a un progetto organico ed unitario, nella quale la volontà si è però arrestata alla semplice bozza e questo è ampiamente dimostrato anche a livello filologico. I cosiddetti ‘componimenti doppi’, ossia quelli che presentano una doppia stesura con sensibili differenze, hanno caratteristiche simili a quelli presenti nella silloge di Michelangelo: l’artista infatti non sceglie la veste definitiva perché rimanda quella scelta a lettori ed amici, il Pazzi non ha ancora scelto quella che sarà la versione finale del componimento. Le varianti autoriali presenti sul manoscritto testimoniano proprio questo percorso di scrittura e riscrittura del Pazzi nella direzione di una perfezione, formale e contenutistica, di alcuni componimenti. Alfonso sarebbe quindi tornato in un secondo momento sul proprio lavoro, avrebbe ordinato i componimenti e scelto la stesura definitiva di ognuno di loro per confezionare un vero e proprio canzoniere. Un canzoniere che, sull’esempio del maestro, voleva forse prefigurarsi come confessione di un’esperienza amorosa alienante per il poeta, in cui la donna, come una Laura salvifica, è il punto di inizio e di fine di ogni volontà.

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Note

  1. Il presente lavoro nasce come rielaborazione della mia tesi magistrale Le rime dell’autografo Vincenzo Capponi 183 di Alfonso de’ Pazzi. Edizione critica e commentata discussa nell’ottobre del 2020; pertanto tutti i riferimenti ai singoli componimenti rimandano alla numerazione datagli all’interno dell’elaborato.
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