«Leve cum levibus meschientur vanaque vanis». Aspetti del racconto nel Baldus di Teofilo Folengo

Un nuovo inizio: libri XVI-XX

Come le altre sezioni del Baldus, anche la quarta e penultima cinquina di libri è inaugurata da un avvicendamento di muse nel Parnaso macaronico. La musa che il poeta saluta nel proemio del XVI libro, infatti, non è più Lippa Mafelina Lodola, ispiratrice della precedente cinquina di libri. È, invece, Togna, «caput mundi et lampada Cipadae» (XVI 1), la stessa musa che, invocata nel proemio della Moscheide (Folengo 1997), canterà la terribile guerra di Siccaborone, il re delle mosche, contro le formiche. Questa parte del poema si apre, dunque, con la presentazione di una musa di armi e battaglie, una musa bellica che, prevedibilmente, anche nel Baldus si dispone a «cantare stupidasque sonare bataias» (XVI 4)1. Del resto, il libro precedente si è concluso con l’arrivo di alcune minacciose galee non ancora identificate: esse hanno interrotto la trattazione astrologica di Cingar e spinto l’equipaggio della nave a prendere in mano le armi. Ma se è ovvio che, a cinque libri di distanza dalla grande vendetta di Baldo a Cipada, un nuovo scontro si profila nel récit del poema; a seguito dell’operazione di rinnovamento delle strutture narrative e dei generi intrapresa nella cinquina precedente, non è concesso al lettore speculare su quale sia il contenuto di questo scontro. Il breve proemio del XVI libro sancisce una particolare indeterminatezza: è il preludio a un nuovo inizio, al punto che persino il poeta si premura di specificare che non sa che cosa la sua nuova musa intenda raccontare. E se è evidente che quando il poeta afferma «Nescio quid referet» (XVI 6) sta fornendo una preliminare dichiarazione di inconsapevolezza, essa è però una dichiarazione che non si limita a introdurre il singolo nuovo argomento, ossia la battaglia che il poeta si appresta a raccontare in questo libro. È una dichiarazione generale, compatibile con quello che è l’assetto narrativo dell’opera a questo punto del racconto, in una fase in cui, ormai, tutti i filoni aperti precedentemente nel poema risultano esauriti.

Il XVI libro eredita, infatti, dai precedenti una nave che, scampata alla tempesta e riparata sullo scoglio di Manto, viaggia senza alcuna meta, completamente priva di un itinerario. È la nave che ospita Baldo insieme ai suoi compagni, ma è anche la nave con cui Folengo nell’XI libro allude metaforicamente al suo poema, e che, come in quel caso, condivide con l’opera gli stessi destini. Come la nave non possiede ancora una direzione, così anche l’assetto narrativo del Baldus appare avviluppato in una sorta di grado zero, un’indeterminatezza potenziale che replica, nonostante siano ormai passati migliaia di versi dall’inizio dell’opera, l’indeterminatezza del cominciamento. Tale virtualità assoluta, in cui tutto è ancora possibile, è generata dal fatto che alcuni elementi necessari allo sviluppo del racconto sono al momento assenti. All’inizio del XVI libro, infatti, manca al poema soprattutto un indirizzo teleologico, un elemento imprescindibile per lo sviluppo completo di un segmento narrativo. Esso verrà assegnato lentamente proprio nel corso di questa cinquina di libri, una cinquina dall’andamento circolare, che si chiude con un episodio simile a quello che la apre: uno scontro tra pirati. Si potrà, pertanto, confrontando i due momenti, dimostrare come il completamento della costruzione narrativa differenzi il primo episodio, in cui i personaggi agiscono ancora senza avere in mente uno scopo, dal secondo, in cui i personaggi agiscono sapendo di dover completare una missione ben precisa. Questo, però, soltanto alla fine. Per il momento, sarà meglio procedere con ordine e provare a individuare la nuova direzione del poema.

Un immaginario letterario: la foresta

Nonostante la misteriosa affermazione del narratore, il primo scontro cantato dalla musa Togna è un prevedibile scontro navale: il vascello su cui viaggiano Baldo, Cingar, Leonardo, Gilberto e Boccalo viene attaccata da una ciurma di pirati, guidata dal corsaro Lirone. È un combattimento confuso e incerto che si conclude con un pareggio e, significativamente, con un cambio di nave. Nella foga, infatti, saliti su una delle galee dei nemici per attaccare direttamente i pirati, Cingar Leonardo e Baldo non si avvedono che questi hanno occupato la loro nave, né Lirone si accorge di aver lasciato una galea in mano ai nemici. Lo scontro è, dunque, soltanto rinviato, perché sia Baldo sia Lirone promettono, allontanandosi, di rincontrarsi. Ma la nave-poema è ormai un’altra: su questa nuova imbarcazione i tre eroi accolgono Gilberto e Boccalo, scampati miracolosamente all’assedio, e qui incontrano due personaggi, assenti entrambi dalla narrazione a partire dalla loro presentazione nel IV libro, e adesso ritrovati: Moschino e Falchetto. È un momento chiave per interpretare l’opera, e non solo perché il ritrovamento di Moschino e Falchetto conferma un nuovo trend narrativo, che prevede la lenta composizione di un gruppo con a capo Baldo, ma anche perché Folengo si serve dell’incontro per elaborare una sorta di elogio dell’amicizia, prima attraverso un discorso di Cingar (XVI 230-290), poi raccontando i festeggiamenti per il ritorno di Falchetto (XVI 390-420). L’amicizia, infatti, rappresenta il principale valore morale attivo nel poema, soprattutto per come, secondo Folengo, si contrappone al sentimento amoroso, all’amore passionale, che proprio alla fine del XVI libro viene chiamato in causa in una lunghissima invettiva misogina (XVI 485-620). In essa, le donne vengono accusate di corrompere a più livelli i giovani, di ingannarli con trucchi e stratagemmi e, soprattutto, di adescarli insistendo sulla presunta necessità della passione – una presunta necessità che intacca, soprattutto, l’onore –, tanto da arrivare a praticare la stregoneria. Al di là del contenuto misogino2, si tratta di un’invettiva importante perché svolge una precisa funzione narrativa: una duplice azione prolettica che, in un primo momento, anticipa una parte del contenuto del libro seguente; e che, complessivamente, lascia presagire uno dei principali temi della seconda macrosezione del Baldus: la lotta alle streghe. Leggiamone un piccolo estratto:

Cingar abit magno spacio lontanus ab illo;
nescit heu, nescit miserum seguitare Lonardum:
nam bene dicendus miser est, cui cruda paratur
mors, iuveni schietto, puro, similique rubinis.
Et quae causa necis fuit huius? Foemina. Mirum,
si quid monstrum aliud quam foemina rumpere possit
mentem tam sanctam castamque Deoque placentem. (XVI 483-490)

Il narratore, dunque, non soltanto anticipa la morte di Leonardo a causa delle avances della strega Pandraga, ma fa di questa anticipazione la causa scatenante dell’invettiva. E il commento misogino rivela, in questo modo, un’informazione fondamentale per il prosieguo del racconto. C’è, però, anche dell’altro. L’invettiva si presenta, infatti, come la cesura che mette definitivamente fine alla sezione marina del poema, perché sospende la narrazione proprio quando Baldo e compagni finalmente interrompono la loro navigazione e tornano a porre piede sulla terra ferma, su quella che, all’apparenza, sembra un’isola.

A differenza dello scoglio di Manto del XIII libro, l’isola su cui giungono i soci Baldi non pare affatto disabitata: li accoglie una fitta vegetazione, una vera e propria selva che presenta evidenti analogie con altre selve della tradizione letteraria, e un preciso nucleo di significati metanarrativi. Siamo, dunque, davanti a un luogo letterariamente non neutro, che proietta con la sua apparizione una serie di implicazioni narrative che il Baldus a suo modo accoglie in profondità. La foresta è, infatti, per usare le parole di Le Goff, «il centro dell’avventura cavalleresca, o piuttosto questa vi trova il suo luogo di elezione» (Le Goff 2007: 39). Nella foresta, i cavalieri del romanzo cortese prima, quelli del romanzo cavalleresco poi, hanno la possibilità di mettersi alla prova. Ma la foresta, come la stessa lettura di Le Goff chiarisce, è anche il deserto dell’immaginario medievale, luogo per eremiti ed emarginati, nonché selva oscura, anticamera, come nella Commedia e nell’Eneide, dell’aldilà. E se è difficile, insomma, ritrovare un luogo più stratificato nella tradizione letteraria cinquecentesca, il fatto più interessante è che il Baldus si serve, a diversi livelli di imitazione, di tutte queste stratificazioni.

L’immaginario della foresta impone, prima di tutto, che vi sia al suo ingresso solitudine e individualità, e infatti il gruppo di cavalieri da poco riformatosi è subito destinato a sciogliersi. Appena sbarcati sull’isola, è Falchetto il primo personaggio ad avviarsi nella foresta: la sua sparizione costringe i compagni a separarsi per cercarlo; e uno dopo l’altro, tutti si inoltrano al suo interno. «Septem igitur socii, quo tempore stare dunatos / […] ecce squadernantur, sic sorte menante tapinos» (XVII 113-114)3. L’aver separato il gruppo, però, è una circostanza che determina importanti conseguenze narrative per lo sviluppo del racconto, perché impone a Folengo di adottare nella prima parte del XVII libro un differente metodo di costruzione dell’intrigo, basato su una diversa tecnica narrativa. Fino a questo momento, infatti, la narrazione del Baldus è sostanzialmente un blocco unico. Folengo ha seguito Baldo, prima ancora della sua nascita, diremmo, dal suo concepimento, e significativamente, quando ha avuto necessità di allontanare Baldo dalla narrazione, ha sospeso il filone-Baldo lasciando per diversi libri il personaggio nella prigione di Cipada.  E se è vero che nel XII libro e all’inizio del XIII Folengo ha interrotto per pochi versi il racconto principale per inserire, in entrambi i casi, un piccolo inserto mitologico; è evidente che in quel caso, più che una sospensione, si è trattato semmai di un commento alla narrazione, che si è conservata inalterata e ancora distinguibile come un’unità. Adesso, ad inizio XVII libro, invece, all’ingresso di questa selva non è più possibile continuare a raccontare in un blocco unico: Folengo è costretto a sgretolare, momentaneamente, la diegesi. Ed è notevole e significativo che, nel farlo, egli adotti un sistema basato su una serie di trapassi narrativi che ricorda, su una scala sensibilmente più piccola, il romanzo cavalleresco. Non si tratta, ovviamente, di servirsi all’improvviso dell’entrelacement, cosa che, del resto, in uno spazio ridotto come poco più di metà libro, sarebbe impossibile. Ma la tendenza a voler scimmiottare quel tipo di racconto è ben presente sia nel bagaglio poetico che nell’intenzione di Merlino. Per comprendere meglio il fenomeno, leggiamo alcuni tra i più significativi stacchi narrativi:

Cingar at interea Falchettum cercat et illum
saepe vocat: cifolat, blastemat, giurat, avampat. (XVII 105-106)4

 

Haec ea dum tali rerum vertigine passat,
scilicet ut vivus soteratur Falco, Leonardus
mortuus a nullis sit humatus fraude puellae,
hunc repetamus ovemque ursis buttemus edendam. (XVII 209-212)5

 

Cingar at interea sylvas pregraveart omnes,
Falchettumque suum iam rauca voce cridabat. (XVII 289-290)6

Mentre il primo e l’ultimo mostrano in tutta evidenza l’elementarità del meccanismo narrativo, entrambi attuati, come anche gli intermezzi mitici che abbiamo visto nella sezione precedente, attraverso l’avverbio interea; il secondo stacco appare piuttosto interessante. Mostra, quantomeno, una volontà ludica che può essere comparata con alcuni passaggi del Furioso, come il celebre «Ma mi parria, Signor, far troppo fallo, / se, per voler di costor dir, lasciassi/ tanto Ruggier nel mar, che v’affogassi» (Ariosto 2015: 1305). Certo, Folengo persegue un intento ludico, e questa momentanea e piccola variazione dalla tecnica utilizzata non ha nulla a che vedere con la complessa costruzione della macchina narrativa ariostesca. Eppure, è un segnale che proietta prepotentemente l’ombra del romanzo cavalleresco lungo tutto questo libro. Del resto, l’iniziale descrizione del locus amoenus (XVII 1-22) in cui Leonardo si addormenta, come Angelica nel I canto del Furioso; e l’incontro di Cingar con un eremita in una spelonca (XVII 292-334); e ancora la «strani persona gigantis» che attacca lo stesso Cingar (XVII 397-440); sono in tutta evidenza momenti fortemente connotati in senso romanzesco. Se ad essi si aggiunge, poi, il fatto che, prendendo commiato dal libro precedente, Folengo ha già utilizzato una metafora ben presente nella tradizione cavalleresca, quando, interrompendo l’invettiva contro le donne, ha scritto: «sed plures alias brevitatis causa fusaras / praetermittit, habens altros ad texere filos» (XVI 620-621)7; il prepotente ritorno delle dinamiche della tradizione romanzesca nel poema appare innegabile. Tuttavia, sarebbe un grave errore ritenere il romanzo cavalleresco l’unico genere che agisce nel modellare questo libro, e ancor più grave intendere la sua influenza come una sorta di acquisizione passiva del poema. Come si è accennato, Folengo si serve di gran parte delle stratificazioni letterarie implicite nell’immaginario della selva, e lo fa in modo sempre attivo. La costante contaminazione caratteristica di questa sezione del poema risulta, del resto, particolarmente evidente in due episodi centrali del XVII libro: la morte di Leonardo e l’incontro di Cingar con un eremita.

La morte di Leonardo, Guido e il sogno di Baldo

Preannunciata, come abbiamo visto, già nel XVI libro, la morte di Leonardo è l’asse portante dei libri centrali di questa sezione, sia a livello ideologico-simbolico sia a livello diegetico. Leonardo, infatti, muore affrontando in combattimento due orsi evocati dalla strega Pandraga, muore cioè per ragioni ideologiche, perché rifiuta l’amore e le avances di quest’ultima. E se il racconto della sua morte, in un certo senso, realizza quanto il narratore ha anticipato nella invettiva precedente; esso permette anche l’apparizione nella logica della narrazione di un nemico, di un elemento diegetico negativo che i personaggi devono adesso affrontare. A ben vedere, però, l’episodio della morte di Leonardo solleva questioni interessanti fin dall’inizio del passo, ancor prima della sua definitiva uscita di scena. Mi riferisco soprattutto al fatto che, valutando con attenzione i diversi momenti in cui egli è presente in questa parte dell’opera – come ha notato Mario Chiesa nel commento alla sua edizione al Baldus (Folengo 2006: 684)8  – emerge un aspetto, a prima vista, piuttosto sorprendente: la prima fase del martirio di Leonardo, in cui si racconta dell’assalto di Pandraga al giovane che dorme, ricorda uno degli exempla citato da Girolamo nella Vita sancti Pauli, in cui, come nel poema folenghiano, leggiamo di un giovane aggredito sessualmente in un locus amoenus, e che paga con la vita il tentativo di evitare l’atto lussurioso. Sebbene il legame tra i due testi sia, in realtà, piuttosto fragile – a dirla tutta l’episodio folenghiano appare più affine, per contesto, all’assalto dell’eremita ad Angelica in Orlando Furioso VIII 48-49 (Ariosto 2015: 286) –  riconoscere in questo passo l’influenza dell’agiografia permette di rendere conto di una differenza importante tra l’esperienza di Leonardo e le altre avventure presenti in questi libri romanzeschi, ossia il fatto che quella di Leonardo più che una prova cavalleresca si presenta a tutti gli effetti come un atto di resistenza a una tentazione diabolica. Leggiamo, a proposito, un estratto dall’episodio:

Ergo viam scampat, veluti scamparet ab igne,
per quem mille brusant Troiae semperque brusabunt.
Dumque fugit, secum loquitur: – Brevis illa voluptas
subrit aeternum coeli decus; o Pater, o Rex,
quem trepidant victi manes, cui coelica paret
militia, unum oro: da invictum pectus et arma,
daque trimphat meme hostibus altius ire. (XVII 72-78)9

L’atto eroico di Leonardo consiste in un’azione che secondo l’ethos cavalleresco non è affatto eroica: la fuga; e per di più, il personaggio pronuncia una sorta di preghiera in cui implora a tutti gli effetti il martirio. Ma se in questo caso l’applicazione del modello agiografico viene confermata anche dalle modalità della morte – perché lo scontro eroico del santo contro animali mostruosi è notoriamente elemento topico dell’agiografia (Alexander 2008); la tecnica narrativa utilizzata in questa sezione del poema rende più ingarbugliata la contaminazione. Folengo, infatti, separa il momento della tentazione dallo scontro eroico, sospendendo il racconto del martirio di Leonardo per passare a un episodio costruito su un tono decisamente diverso, più squisitamente romanzesco: la trappola con cui Pandraga e il suo vecchio amante, Beltrazzo, imprigionano Falchetto.

È un episodio che non commenterò: esso sarà risolto dal solito Cingar che, con l’aiuto del centauro Virmazzo, catturerà la strega e il vecchio, dopo essere sfuggito all’attacco del gigante pulciano Molocco e del fratello Furabosco. Tuttavia, prima di liquidare, come spesso gli capita, da deus ex machina, il pericolo Pandraga, Cingar compie anche un incontro cruciale per le sorti del racconto, che merita di essere approfondito. Egli si imbatte in un eremita che, da un lato, lo riconosce e lo avverte dei pericoli a cui va incontro all’interno della foresta; ma che, dall’altro, si rifiuta di rivelare la sua identità senza la presenza di Baldo. Si tratta, evidentemente, di un altro momento molto stratificato a livello intertestuale, in cui ancora una volta il modello agiografico si intreccia con il motivo romanzesco, perché il vecchio eremita, sebbene Cingar non lo sappia ancora, non è altri che Guido, il padre di Baldo. Ma se quello di Guido è chiaramente un ritorno, perché ricompare all’interno del racconto dopo esserne sparito nel lontano II libro; la funzione narrativa svolta dal personaggio in questa sezione del poema è, invece, completamente proiettata verso il futuro. È Guido, infatti, colui che nel libro XVIII chiarisce la direzione che il poema intende percorrere nel corso di questa seconda macrosezione, facendo i nomi dei nuovi nemici dei protagonisti e, quindi, fornendo un primo elemento teleologico alla narrazione. Leggiamo le rivelazioni di Guido.

Tre modo sunt pestes, quibus aër, pontus et omnis

 

Mundus amorbatur, tres saghae tresque dablae;
haec Pandagra una est, Smiralda secunda, sed altra
Gelfora, cunctarum pessima, fezza styarum.

[…]

Mortuus est Orlandus, Aiax, Tristanus et altri,
quos supra dixi cavaleros esse doveri.

Sic ego nunc ligni meme vestibo giuponem
sub terramque ibo, mundi andamenta relinquens.

Et quoniam guerrerus eram barroque Seraphi,
haec impresa manet Baldum: te, Balde, ribaldas
desertare magas liceat, namque una soletta est

[…]

Qui melius brando guastabis regna styarum
quam inquisitorum sex millia, quamque magistri
sacri Palazzi cum centum mille casottis.
Eya age! Ne timeas caput obiectare periclis,
perque ignem perque arma rue, virtutis amore. (XVIII 307-349)10

È una vera e propria investitura con cui Baldo e i suoi compagni vengono informati di quella che è la loro missione, e che automaticamente è anche la missione che il poema dovrà, da questo momento in poi, raccontare. Finisce, dunque, in questo modo quella virtualità totale di cui la narrazione era ancora in possesso all’inizio della cinquina e che si è vista nella prima parte di questo intervento. Ma come si inserisce la netta svolta rappresentata dal discorso di Guido nella commistione di modelli narrativi presente in questa sezione del poema?

Per rispondere a questa domanda, devono essere chiariti innanzitutto alcuni importanti aspetti. In primo luogo, bisogna ricordare che il lungo intervento di Guido è in parte modellato su un’altra celebre investitura, il discorso di Anchise ad Enea nel VI libro dell’Eneide. Ma se è vero che il momento, preannunciando la vittoriosa guerra di Baldo contro le streghe e con il riferimento agli eroi Aiace e Orlando, si prefigura profondamente epico; è anche vero che pochi versi prima, nello stesso discorso, Guido ha, coerentemente con il suo ruolo ascetico, invitato a non dare peso alle cose mondane, cioè a non dare peso né al denaro né all’onore11. Il suo essere contemporaneamente asceta ed eroe è, insomma, una contraddizione tanto insolubile che si ripercuote non solo sul suo discorso, ma integralmente su tutta questa parte del racconto, in cui alcune delle diverse anime del poema si sono fatte improvvisamente più palpabili e concrete. Del resto, è necessario notare che questa investitura epico-cavalleresca è, in realtà, resa narrativamente possibile da due momenti che provengono anch’essi da tradizioni diverse ma che appaiono, anche in questo caso, fortemente stratificati e tra loro connessi: da un lato, la morte di Leonardo, che abbiamo già commentato; e dall’altro, un particolare sogno che Baldo compie dopo essere svenuto a causa del dolore provocato proprio dalla perdita dell’amico, e in cui lo stesso Leonardo lo invita a mettersi alla ricerca del padre.

La morte di Leonardo e il sogno di Baldo appaiono molto importanti per il discorso di Guido, perché sono i due eventi che scandiscono le tappe del processo di ristrutturazione dell’architettura narrativa del poema, una ristrutturazione fondamentale affinché Guido compia il suo discorso davanti a tutti i personaggi e possa, così, incaricarli di affrontare le streghe. Si tratta, propriamente, di una nuova metamorfosi della tecnica diegetica utilizzata per costruire l’intrigo, attiva proprio dalla metà del XVII libro, a partire cioè dalla morte di Leonardo. Da quel momento, infatti, in tutta evidenza la narrazione smette di essere organizzata attraverso i piccoli trapassi narrativi analizzati in precedenza, per proseguire nuovamente come un blocco narrativo unico. Questa ricongiunzione avviene perché tutti i personaggi convergono, a un certo punto, intorno al cadavere insepolto di Leonardo. Ma è principalmente il ritorno in scena di Baldo ciò che accelera il processo di ricomposizione narrativa, tanto è vero che la definitiva ricomposizione della diegesi coincide proprio con il risveglio di quest’ultimo e con lui che racconta ai suoi amici il sogno che ha compiuto. Quando Baldo si risveglia, infatti, tutti i suoi soci sono di nuovo al suo fianco, ed egli può, dunque, rivolgersi a tutti, come farà poco dopo suo padre. Del resto, proprio come il discorso del padre, bisogna riconoscere che anche questo sogno è costruito attraverso la netta stratificazione di diversi modelli letterari. Sebbene venga raccontato in modo indiretto e non occupi quantitativamente tanti versi, in esso si riconoscono, da un lato, i tratti tipici del sogno virgiliano e più in generale della tradizione epica, e dall’altro alcuni tratti non riducibili a questa tradizione. Come in Eneide II 268-302, si legge dell’apparizione di un cavaliere defunto che preannuncia ad un altro cavaliere veridicamente12 il futuro, ma a differenza di Ettore nel passo virgiliano, nel sogno folenghiano Leonardo non piange e, anzi, consola Baldo, mostrandogli le gioie della vita eterna: «cosas, quas dicere possem, / si centum linguas vocemque azzalis haberem» (XVIII 172-173)13.

È, dunque, questo sogno folenghiano, un passaggio pressappoco definitivo per comprendere quella commistione di elementi letterari che abbiamo visto in opera sul sostrato romanzesco della foresta di questa sezione del Baldus. In esso, come nei precedenti episodi, altri modelli contribuiscono alla costruzione del racconto, sia fornendo topoi, sia fornendo meccanismi narrativi che, nel grande calderone del macaronico, vengono poi manipolati. Così, chiaramente in bilico tra eroismo, ascesi e romanzesco – ossia anche tra agiografia, epica e romanzo – la morte di Leonardo, il sogno folenghiano e il discorso di Guido paiono episodi evocati dalla foresta in cui è ambientato il racconto, una foresta che sembra non solo la rappresentazione di un immaginario, ma propriamente l’esibizione di un grande bagaglio letterario.

Prefigurazioni: il completamento della fondazione del racconto

L’invocazione con cui Guido annuncia ai personaggi del poema il senso del loro cercare e la meta a cui dovrà tendere il racconto non è, in realtà, l’unica investitura eroica presente in questa sezione del poema. E forse proprio a causa del carattere fondativo che la sezione presenta nella logica complessiva dell’opera, un’altra investitura chiude il libro XVIII, a poche centinaia di versi di distanza dal discorso di Guido. È il racconto di una sorta di rituale, una strana cerimonia, in cui Baldo viene improvvisamente coinvolto, subito dopo la morte del padre. Introdotto in una stanza quadrata, alla presenza dei simulacri di trenta personaggi storici e letterari – tra cui il padre appena morto – egli viene eletto ‘cavaliere di Serafo’, il misterioso ideatore, nella conclusione dell’VIII libro, dell’epigrafe della vacca Chiarina. Come il narratore ci informa, il cavaliere succede a suo padre come primus inter pares di questo gruppo di eroi, e davanti ad essi tiene un discorso in cui professa la sua indegnità. Ma a questo punto, misteriosamente, il protagonista del poema si sdoppia: diventa anch’egli, come gli altri simulacri, un’immagine, senza però smettere di possedere un corpo. Così, mentre tutti i simulacra degli eroi vanno in fumo, anche l’immagine di Baldo sparisce con loro; solo la sua immagine però, perché l’altro Baldo, il Baldo non simulacro, ritorna dai compagni. La rarefazione di queste immagini di eroi che vanno in fumo si presta piuttosto bene a chiudere un libro che si è aperto con l’immagine della mente di Baldo persa nelle regioni astratte dei sogni, dove viene mostrato all’eroe «in rebus quidquam sperare caducis» (XVIII 7), quanto sia vano sperare qualcosa nelle cose caduche.

Comunque sia, a questa misteriosa investitura segue nel XIX libro una nuova prefigurazione narrativa, anch’essa utile a raffinare l’elemento teleologico presentato nel XVII libro e, da quel momento, attivo in questa nuova macrosezione dell’opera.  Questa nuova prefigurazione è, infatti, per certi versi, una precisazione. Se nei libri precedenti Folengo ha dato grande risalto alle streghe, raccontando delle avventure di Baldo e dei suoi compagni contro Pandraga, nel XIX libro l’autore ricalca i contorni infernali di questo scontro, costruendo in questo modo le prime fondamenta per la catabasi che vedrà impegnati gli eroi nell’ultima sezione del poema. Pertanto, il contenuto narrativo di questo libro è una battaglia infernale, una lotta contro i diavoli, uno scontro epocale che vede impegnati una trentina di demoni, tutti evocati, grazie ad un libro magico, dal demonio Rabicano.

La prima battaglia infernale del Baldus, però, pane per i denti della musa bellica Togna, presenta una caratteristica peculiare, perfettamente riconoscibile anche nella sezione successiva, e che appare decisamente interessante. Mi riferisco al fatto che, fin dalla apparizione del primo demone, l’epifania diabolica narrata in questo libro viene contaminata da elementi che tendono vistosamente verso il comico. Chiamati dal centauro Virmazzo e da Moschino, che hanno assistito per primi all’evocazione di Rabicano, tutti gli eroi del poema non solo sono attratti dalla prospettiva di poter osservare un diavolo – per scoprire «si sit bruttus quam pingere vulgus avezzat» (XIX 117-118)14; ma nel vedere quest’ultimo che danza tutto allegro mentre sfoglia il libro magico di Pandraga, non possono fare a meno di ridere. Scrive Folengo:

Quapropter saltis balzat mattazzus alegris,
scambiettosque facit varios fingitque morescam.
Compagni rident inviti labraque chiudunt
saepe sibi stessis, propter retinere cachinnos,
unde fadigabat mandare silentia Baldus. (XIX 132-136)15

L’incremento della componente sovrannaturale del poema, dunque, non produce una diminuzione delle istanze comiche presenti all’interno dell’opera. Durante le fasi finali della battaglia, infatti, gli eroi si ritrovano pacificamente a osservare i diavoli che, animati da divisioni personali, cominciano ad attaccarsi gli uni con gli altri, in una zuffa confusa e ridicola che termina solo con l’arrivo di Lucifero. E a mettere fine al combattimento, non è Baldo con un’azione eroica, ma il buffone Boccalo che, involontariamente, per difendersi dall’attacco dei diavoli, impugna la prima cosa che trova al suo fianco: un crocifisso con cui costringe tutti i diavoli a una confusa ritirata. Così, però, l’elemento comico non contribuisce solo a fornire una diversa connotazione agli episodi del poema; esso assume in parte un valore nuovo, per di più potenzialmente perturbante, perché esso deriva essenzialmente dalla reazione scaturita dall’accostamento del trascendente col ridicolo.

Ad ogni modo, avendo cacciato i demoni e sepolto insieme Guido e Leonardo, il gruppo può eliminare finalmente Pandraga, la prima delle tre streghe che Guido ha indicato come principali responsabili del male nel mondo.  Alla morte di Pandraga, però, l’isola-foresta sul cui immaginario, come abbiamo visto, è costruita tutta la sezione rivela di essere, in realtà, qualcos’altro: una balena. Ma se l’isola-balena è già un luogo ben presente nella tradizione romanzesca e cavalleresca – e pertanto un riferimento già palese – il poema si fa poco dopo ancor più esplicito nel mostrare i suoi modelli perché, non appena la balena comincia a muoversi, i personaggi intravedono in vicinanza un gigante che col suo corpo fa da vela ad una enorme imbarcazione pericolante. Quel gigante è Fracasso, un altro personaggio presentato nel IV libro e da quel momento allontanato dalla narrazione; egli è il nipote di Morgante, e proprio come Morgante nel XX cantare del libro di Pulci (2002: 693), sta reggendo la vela di una nave. Tuttavia, a differenza dell’antenato, che salta su una balena per salvare la nave di cui regge la vela, e quindi per far sì che essa arrivi in porto, Fracasso abbandona la sua imbarcazione per raggiungere i compagni e per trasformare la stessa balena in uno strumento di navigazione. Folengo contamina due momenti diversi del poema di Pulci – il salvataggio della nave e l’uccisione della balena –, poiché incarica Fracasso di governare la balena e di fornirle un corso preciso, che contrasti la direzione casuale che essa avrebbe preso. Riprendendo la metafora nautica con cui Folengo allude spesso al suo racconto, si può dire che Fracasso, in un certo senso, impedisce che il poema si disperda nuovamente, riuscendo con un tremendo sforzo a imporsi sulla balena e, dunque, fuori di metafora, sulla narrazione. Non a caso, mentre Baldo e i suoi compagni sono tutti intenti ad affrontare la balena per far sì che non si riappropri del comando della navigazione, come si è accennato all’inizio di questo paragrafo, gli eroi incontrano nuovamente i pirati con cui si erano scontrati nel XVI libro. E anche poiché il poema adesso sta faticosamente tentando di proseguire nella direzione stabilita, a differenza del XVI libro, questo scontro può finalmente avvenire. Togna canta, allora, di una tremenda battaglia navale che vede protagonisti, sulla schiena della balena, soprattutto Baldo e il pirata Lirone. Ma è uno scontro dal finale imprevisto. Mentre la balena affonda, lasciando sprofondare con sé tutto il suo carico, Baldo e Lirone non mettono fine al combattimento, e pare condividano lo stesso destino dell’animale. Invece, poco dopo, i due riemergono sani e salvi, per di più – «oh gran bontà dei cavalieri antiqui» (Ariosto 2015: 102) – contemporaneamente in sella allo stesso cavallo. Nemici all’inizio della sezione, sono adesso diventati soci, al punto che anche il pirata, insieme al fratello, sceglie di ingrossare le fila del gruppo di Baldo.

Questo improvviso colpo di scena chiude il XX libro. Ma se, evidentemente, esso sta a significare che qualcosa di fondamentale è ormai mutato dal XVI libro; a mio avviso, questo mutamento non può consistere in altro se non nel fatto che il poema di Folengo ha finalmente di nuovo uno scopo. Mentre nel primo scontro coi pirati il poema appariva ancora in balia di una navigazione troppo spontanea e inconcludente, esso può, a questo punto, procedere lungo la traccia che si è dato nel corso di questa sezione, e restare, così, fedele a se stesso. Deve raccontare la vendetta di Baldo nelle remote terre infernali e la sconfitta delle streghe e dei diavoli. Lo stesso Lirone, del resto, il capo dei pirati, ha scelto di condividere questo progetto e lo ha fatto suo. Così, chiudendo circolarmente il racconto della sezione con lo stesso evento con cui lo ha aperto, Folengo suggella la differenza che intercorre tra lo stato di virtualità totale del XVI libro e la consapevolezza teleologica dei libri successivi. Insomma, ci informa che, adesso che la balena-poema è approdata alle rive infernali, nient’altro le interessa.

Bibliografia

Alexander, Dominic (2008), Saints and Animals in the Middle Age, Woodbridge, Boyde & Brewer.

Ariosto, Ludovico (2015), Orlando Furioso, E. Bigi (a cura di), Milano, BUR.

Bologna, Mirco (2011), Figure e aspetti del sistema sociale folenghiano. Villani, donne e stranieri nel Baldus, Pisa, Tesi di dottorato.

Chiesa, Mario (1988), Teofilo Folengo tra la cella e la piazza, Alessandria, Edizione dell’Orso.

Folengo, Teofilo (1997), Macaronee minori. Zanitonella, Moscheide, Epigrammi, M. Zaggia (a cura di), Torino, Einaudi.

Folengo, Teofilo (2006), Baldus, M. Chiesa (a cura di), Torino, UTET.

Le Goff, Jacques (2007), Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Roma-Bari, Laterza.

Pulci, Luigi (2002), Morgante, G. Dego (a cura di), Milano, Fabbri.

Note

  1. «Cantare e celebrare stupefacenti battaglie». Le citazioni dal Baldus sono tratte dall’edizione a cura di Mario Chiesa (Folengo 2006); di Chiesa sono anche le traduzioni.
  2. Per un’analisi della misoginia folenghiana cfr. Bologna 2011: 136-242.
  3. «Così i sette compagni, proprio nel momento in cui sarebbe stato necessario insieme e non allontanarsi dal gruppo, ecco che si sparpagliano: così la sorte guida i miseri».
  4. «Frattanto Cingar cerca Falchetto e lo chiama ripetutamente: fischia, bestemmia, urla, avvampa d’impazienza».
  5. «Mentre, per la frode di una fanciulla accadono questi fatti, con tale capovolgimenti di cose, che cioè Falchetto vivo sta sotterrato, mentre Leonardo morto non è inumato da nessuno, ritorniamo da costui e buttiamo agli orsi l’agnello da sbranare».
  6. «Cingar intanto aveva perlustrato tutte le selve e chiamava il suo Falchetto con la voce ormai roca».
  7. «Ma l’esigenza della brevità mi fa tralasciare molte altre sciocchezze, avendo altri fili da tessere».
  8. Cfr. anche Chiesa 1988: 26-27.
  9. «Perciò fugge via, come fuggirebbe dal fuoco, dal quale sono bruciate e saranno bruciate in futuro mille Troie. E mentre fugge, dice tra sé e sé: – Quel breve piacere porta via la gloria eterna del cielo; o Padre, o Re, che gli spiriti infernali sconfitti temono, al quale ubbidisce la milizia celeste, una cosa sola chiedo: dammi un cuore e un’armatura invincibili e dammi di salire in alto dopo aver trionfato sui nemici».
  10. «Tre sono le pesti dalle quali l’aria, il mare e il mondo intero sono appestati, tre le streghe, tre le diavolesse: questa Pandraga è la prima, Smiralda la seconda, l’altra è Gelfora, la peggiore di tutte, la feccia delle streghe. […] Morti sono Orlando, Aiace, Tristano e tanti altri che poco fa ho detto esser cavalieri del dovere. E cos ora io mi rivestirò di un mantello di legno e andrò sottoterra abbandonando le vicende del mondo. E siccome ero un guerriero e un cavaliere di Serafo, questa missione tocca a Baldo possa tu Baldo distruggere le maghe maligne, perché Manto e l’unica autentica Sibilla […] E tu con la spada porterai la rovina nelle regioni delle streghe più di sei mila inquisitori, più dei maestri del Sacro Palazzo con cento mila roghi. Su coraggio! Non temere di presentare il capo ai pericoli e di lanciarti in mezzo alle armi per amore della virtù!»
  11. Ad esempio, cfr. XVII 275-280.
  12. Come il narratore specifica al verso 134 del XVIII «Baldus adhuc mentem per vera sogna volutat» («Baldo vola ancora con la mente tra sogni veritieri»).
  13. «Cose che potrei raccontare se avessi cento lingue e una voce d’acciaio». Chiesa, nel commento (Folengo 2006: 737), rinvia a Eneide VI 625-626: «Non, mihi si lunguae centum sint oraque centum, /ferrea vox», «Se avessi cento lingue e cento bocche, ferrea voce».
  14. «Se sia tanto brutto come lo dipinge il volgo». Un’affermazione che riprende un commento simile di Baldo al verso 405 del IV libro: «non est tam sozzus, velut est pictur, diavol» («Il diavolo non è tanto zozzo come viene dipinto»).
  15. «Perciò fa dei balzi d’allegria, da pazzerellone, esegue una serie di saltelli e intesse una moresca. I compagni ridono senza volerlo e si chiudono le labbra con le mani per trattenere le risate, così che Baldo fatica ad imporre il silenzio».
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