Vestito di blu come un papavero: l’antipsichiatria in Campos de Carvalho

«Há quem me tome por louco […]. Mas basta uma visita ao hospício para me convencer – desgraçadamente –do contrário». Campos de Carvalho (Silvestre 1969: 42)

Minha literatura não é de lugar nenhum (Resende 1996), affermava Walter Campos de Carvalho (1916-1998). E in parte aveva ragione: non è semplice classificare un’opera come la sua, che condensa in sé la varietà di correnti che coloravano l’ambiente letterario brasiliano e internazionale tra gli anni ’50 e ’60, ovvero i decenni nei quali pubblicò le quattro novelas che lo hanno reso celebre. Per semplificare, possiamo dire che dopo questo periodo l’autore è scivolato pian piano nell’oblio per poi risorgere nel 1995, anno di pubblicazione della sua Obra Reunida da parte della storica casa editrice brasiliana José Olympio. Da allora lo scrittore ha iniziato a essere largamente studiato dal mondo accademico, facendo avverare la profezia secondo la quale il suo precedente editore (Ênio Silveira della Civilização Brasileira), all’epoca delle edizioni princeps, avrebbe detto che la produzione di Campos de Carvalho sarebbe stata compresa solo da lì a 30 anni.

Campos de Carvalho si presenta come un personaggio sui generis, arcigno, silenzioso e al contempo criptico. Non si sa perché abbia abbandonato la scrittura e, a tale riguardo, egli stesso fornisce più motivazioni, a volte contraddittorie. Per delineare meglio il suo profilo basta ricordare che si proclamava anarchico, pur avendo lavorato per tutta la vita in una Procura di Stato; e che sosteneva di aver conosciuto il diavolo, una notte nel suo appartamento di Rio de Janeiro. Per questo e per la sua scrittura, irriverente e impregnata di black humor, è sempre stato dipinto dalla stampa come scrittore maledetto. Non solo: fin dalla pubblicazione de A lua vem da Ásia (1956) è stato anche etichettato come pazzo. Questo ha a che vedere con la sua indole surrealista, schiva ed enigmatica, ma anche con la maniera in cui è riuscito magistralmente a immedesimarsi in un’alterità e a dargli voce. Infatti, il romanzo appena menzionato è il diario di un personaggio che si dichiara ospite di un hotel di lusso, il quale, dopo essere stato apparentemente vittima di torture da parte del personale dell’hotel, dirà di trovarsi in realtà in un campo di concentramento. Il lettore, però, si renderà presto conto che la parola del protagonista (nonché narratore autodiegetico) è inaffidabile, così come è inaffidabile la struttura stessa della narrazione, nella quale i capitoli non seguono un ordine sequenziale tradizionale. La piena consapevolezza dell’inaffidabilità del narratore avviene nel Capítulo I (Novamente), dove il tono della narrazione cambia e si percepisce il turbamento che lo svelamento della realtà comporta. I vari indizi che erano stati disseminati lungo il testo trovano un senso e il lettore, grazie alla propria conoscenza enciclopedica, capisce che l’ambientazione è quella di un ospedale psichiatrico e che le torture sono “solo” pratiche di elettroshock.

Quella che abbiamo di fronte è dunque una narrativa “delirante”, che porta alla decostruzione della forma romanzesca attraverso l’escamotage della pazzia del narratore-protagonista, del quale, peraltro, non abbiamo informazioni certe. Inoltre, il continuum narrativo è privo di coordinate storico-geografiche credibili e appare come diviso tra presente, passato e fantasia. Anche la struttura diaristica, come preconizzata da Lejeune, viene meno, grazie all’assenza di date ad aprire i singoli capitoli. Questi, nella prima parte del libro, appaiono come denominati senza un criterio apparente: se il primo capitolo si chiama Primo Capítulo, il secondo in sequenza si chiama Capítulo 18, al quale segue il Capítulo 12, e così via. Infine, vale la pena ricordare che, all’interno del romanzo, si rintracciano anche forme testuali diverse, come la lettera, gli aforismi, rimandi intertestuali o intersemiotici1 e l’unico dialogo del romanzo si presenta sottoforma di scambio di battute di un copione teatrale.

Dal punto di vista dei temi affrontati, possiamo affermare che l’autore, usando l’espediente della follia, racconta molte delle brutture del mondo, ma la volontà di denuncia sociale si palesa soprattutto quando guardiamo al movimento antipsichiatrico.

Nel 1934, in Brasile, il decreto n. 24.559 imponeva l’emarginazione come trattamento per le malattie mentali, ed è in opposizione a questa decisione che nel 1956, anno di pubblicazione de A lua vem da Ásia, la psichiatra brasiliana Nise da Silveira apriva la Casa das Palmeiras – uno spazio associativo senza fini di lucro che promuoveva l’umanizzazione dei trattamenti psichiatrici. Il nostro autore poteva non conoscere la volontà innovatrice di Nise da Silveria, ma sicuramente era conscio della situazione in cui versavano i manicomi. Una critica a tale riguardo emerge all’interno del romanzo non solo nei drammatici passi in cui viene narrato l’elettroshock inflitto al protagonista, ma anche quando si riporta, nel Capítulo 334, il tentativo di suicidio di uno degli ospiti della struttura. L’autore del gesto rintracciava le cause nelle «más condições higiênicas do estabelecimento, com o seu número sempre crescente de ratos» (Carvalho 2008: 74-75). Questa accusa suona quasi come un eufemismo, se si pensa a quella struttura divenuta simbolo degli orrori perpetrati nei manicomi in Brasile, ovvero la Colônia della città di Barbacena (Minas Gerais) dove, tra il 1903 e il 1980, persero la vita almeno 60.000 persone, a causa dei maltrattamenti e delle pessime condizioni igienico-sanitarie. Oltre a individui affetti da malattie mentali, a Barbacena venivano internate anche figure che contravvenivano alle norme di comportamento socialmente accettate, come madri single, donne che avevano perso la verginità prima del matrimonio, mogli che dovevano lasciare il posto alle amanti, vittime di stupro, prostitute, omosessuali, militanti politici e persone indesiderate, chi non era in possesso di documenti identificativi o si ribellava alla famiglia, persone di colore, alcolisti, poveri, senzatetto, ma anche persone semplicemente timide: ecco chi costituiva il 70% dei “pazzi” della Colônia. Questiarrivavano con un treno da ogni angolo del Brasile e, giunti nella struttura, dovevano privarsi di ogni bene. Una volta nudi, dovevano fare un bagno collettivo e poi indossare l’azulão (un’uniforme blu) e solo a quel punto venivano smistati nei vari padiglioni in base a età, sesso e altri parametri. La Colônia, pensata per 200 persone, ne arrivò a ospitare anche 5000, in condizioni disumane. Freddo, fame, mancanza d’acqua e di posti letto, a cui si sommavano stupri, camicie di forza e “cure” psichiatriche, come la lobotomia e l’elettroshock. Quest’ultimo, quando usato spesso, toglieva l’energia elettrica a tutta la città. Chiaramente, le morti erano numerose e, quando iniziarono a superare le 15 al giorno e nessun parente reclamava il defunto, i cadaveri cominciarono a essere sciolti nell’acido, nel cortile davanti a tutti. Esisteva anche un’alternativa per far sparire tutti quei cadaveri ed era la loro vendita alle Facoltà di Medicina: un riferimento a questa pratica si trova nel capitolo H del romanzo qui trattato, quando il narratore-protagonista racconta di aver trovato sulla spiaggia un cadavere e, per guadagnare due soldi, pensa bene di venderlo proprio alla Facoltà di Medicina.

Dunque, oltre a poter classificare Campos de Carvalho come surrealista in termini letterari e anarchico in termini politici (come lui stesso si proclamava), possiamo anche inserirlo tra le fila del movimento antipsichiatrico. Per questo diventano rilevanti alcuni parallelismi rintracciabili tra A lua vem da Ásia e la vita e gli scritti di Antonin Artaud, saggista e drammaturgo surrealista della fase eroica francese, caro allo scrittore brasiliano. Artaud si distingue tra i surrealisti soprattutto come sostenitore del movimento antipsichiatrico, anche perché aveva sperimentato sulla sua pelle le “cure” fornite nei manicomi. Proprio negli scritti artaudiani si potrebbe celare la spiegazione del titolo del romanzo qui preso in esame; infatti, dalle pagine de «La Révolution surréaliste» dell’aprile del 1925, Artaud invitava a «volgere lo sguardo verso l’Asia», specificando che:

L’Oriente è dappertutto e rappresenta il conflitto tra la metafisica e i suoi avversari, i quali sono gli avversari della libertà e della contemplazione. Nell’Europa chi può dire dove non sia l’Oriente? Per strada, l’uomo che incontrate può averlo in sé: l’Oriente è nella sua coscienza (Fortini Binni 2001: 96).

E forse Campos de Carvalho, con la luna che viene dall’Asia, voleva mostrarci proprio una fetta d’Oriente, nascosta tra le righe del diario di un pazzo che, in fondo, riesce a cogliere la vera essenza della mente umana, aprendoci gli occhi sulla follia che domina il mondo.

Una proposta di traduzione: quattro capitoli de A lua vem da Ásia

I capitoli di seguito presentati (Carvalho 2008: 29-47) sono stati scelti perché, a mio avviso, rappresentano bene la (non) struttura del romanzo camposcarvalhano e ci permettono di apprezzarne la narrazione intimista. Inoltre, sono emblematici in quanto è possibile notare il passaggio tra la leggerezza iniziale del romanzo e la presa di coscienza della realtà, sia da parte del protagonista che del lettore.

(Senza Capitolo)

Ieri c’è stato un funerale in hotel. Non è stato dei più belli, ma ha comunque rallegrato la vista.

Per la precisione è morto l’attore Papanatas, che questa volta si è scagliato contro la parete come se fosse una palla da calcio e non una da ping-pong, ed è morto sul colpo. Dopo tanto insistere mi hanno lasciato vedere il corpo, tutto vestito di blu come un papavero. Aveva le narici aperte, e non chiuse come supponevo, a inspirare l’aria ambiente che odorava di candele. La testa era avvolta in una fascia molto stretta, sicuramente per evitare che il cervello uscisse dall’apertura provocata dalla parete, dato che non poteva uscire né dalla bocca, né dal naso e neanche dalle orecchie. Ma era lo stesso Papanatas di sempre, o di prima, la Signora delle Camelie, come gli piaceva che lo chiamassero.

C’è stato molto pianto, grazie a Dio; e io temevo che non ci sarebbe stato, non so proprio perché. Io stesso ho azzardato una furtiva lagrima, che è caduta proprio sul naso di Papanatas e dopo è rotolata sulla sua bocca, non è riuscita a entrare solo perché il fazzoletto era annodato proprio bene e ci non sarebbe passato neanche uno stuzzicadenti. Ma chi ha pianto per davvero è stata una donna dalle natiche enormi – un po’ calva, mi è parso – e quando smetteva di piangere era per fissarmi con uno sguardo sospetto, come se avessi ucciso io Papanatas e non lui stesso. Ha pianto anche una ragazzina dai 15 splendidi anni, troppo carina per un funerale così povero, e con la quale ho flirtato tra un pianto e l’altro, per non farmi scappare una così bella occasione.

Non ci sono stati biscotti, come da prassi, e neanche una tazza di caffè fumante e aromatizzato, come ai bei tempi in cui c’era un morto in casa nostra o in casa dei vicini più fortunati. In realtà tutto è stato circoscritto a uno spettacolo molto banale e in parte ridicolo che mi è venuto subito a noia e che ho cercato di dimenticare non appena mi sono ritrovato nel corridoio, a fianco di un cameriere che si è gentilmente offerto di accompagnarmi.

Mi piace la morte, davvero, e soprattutto i morti, ma mi pare che Papanatas avrebbe potuto prepararsi una morte più degna e meno volgare, con uno scampanio a festa per esempio e qualche fuoco d’artificio a pioggia argentata, che sono i più belli per questo tipo di occasioni. Parlerò a tale proposito con la moglie del vicedirettore, non appena verrà a iniettarmi il siero della giovinezza che il governo vuole che venga iniettato gratuitamente a tutti gli ospiti dell’hotel.

E ne approfitterò per tentare di passarle le mani sulle ginocchia e, se possibile, sulle cosce, nonostante il nuovo regolamento non lo permetta.

Capitolo senza Sesso

È venuta a trovarmi mia madre, o perlomeno qualcuno che vuole passare per lei così da potermi incontrare senza pericolo.

Mia madre era diversa, me lo ricordo, e non aveva il pianto facile di cui questa sconosciuta mi ha fatto omaggio per tutta la durata dell’incontro, fissandomi con occhi disperati. Mia madre era allegra, campava ridendo una risata enorme e distaccata dalle cose terrene, come se fosse un uccello in volo sopra un mare di cenere, ma un uccello allegro. Ieri mia madre aveva lo sguardo scavato e triste; dunque, non era mia madre.

L’incontro è durato molto tempo, durante il quale ho fumato varie sigarette e ho cercato di assumere la posa del buon figliolo, per non amareggiare l’infelice creatura. (Supponiamo che sia una povera pazza che ha perso il figlio in guerra e ora ritenga che assomiglio a quel figlio – ho pensato io, e sono arrivato proprio a immaginarmi un romanzo che avesse precisamente questo epilogo crudele.) Alla fine ero già così abituato alle lacrime della donna e così calato nel mio ruolo, che ho iniziato a chiamarla mamma, il che ha causato a lei, e al sottoscritto, un benessere indescrivibile. Sono arrivato, per un momento, a prenderle le mani per ricambiare le sue carezze, e a fissarla con uno sguardo d’infinita tenerezza, che le deve aver fatto un bene enorme, a giudicare dal sorriso che mi ha rivolto.

Abbiamo parlato – anzi, lei ha parlato e io ho risposto – di cose varie e apparentemente insolite, che non mi toccavano assolutamente e che un attimo dopo avevo già dimenticato, come difatti ho dimenticato completamente. Mi ricordo solo che, a un certo punto, ha aperto un piccolo fagotto che portava sul grembo e ne ha fatto uscire, come per magia, un pacchetto di caramelle e una tavoletta di cioccolato, che mi ha dato con un sorriso esultante, come se fossi davvero suo figlio. Non posso dire che il regalo non mi sia piaciuto, ma confesso che l’ho accettato un po’ a disagio e in imbarazzo, forse perché il maître d’hôtel, che si era mantenuto a una certa distanza, ha allungato il collo per vedere di cosa si trattasse e ha perfino accennato un gesto di impedimento. Si sospetta sempre più dell’esistenza di spie tra gli ospiti e questa attitudine precauzionale da parte del direttore e del suo personale non è priva, dopotutto, di fondamento.

Assaggiati i dolci, con la discrezione che il momento esigeva, ho portato mia madre a visitare alcune parti della struttura aperte al pubblico, in particolar modo la corte per lo svago, che le è parsa molto pulita e piacevole. C’era gente intorno, ma passavamo fra tutti come se fossimo nobili esiliati in mezzo a una manica di vagabondi, senza dar loro la minima attenzione – io con un pezzo di cioccolata tra le dita. Ho fischiettato un po’, per rallegrare l’ambiente, e poi, insieme, ci siamo fermati davanti alla cancellata che dà sul bosco dove scorre, sereno, il fiume della Monotonia, come l’ho chiamato in uno dei miei versi più felici. Lì il tempo è passato più in fretta e mi sono completamente dimenticato della presenza della mia dolce accompagnatrice, assorto come sono sempre davanti a uno spettacolo di una così calma bellezza. Quando sono tornato in me, ero già da solo nella mia stanza, a sistemare meticolosamente nel cassetto i dolciumi che mi erano avanzati, in modo che non li scoprisse la donna di servizio che sistema il letto e nel tempo libero mi inietta il siero della giovinezza.

E ora che sono solo, in questa camera dalle pareti immobili e dal profondo silenzio, sento dentro di me un amore filiale che da molto non mi era venuto a trovare e che posso solo attribuire alla tragicommedia che sono stato obbligato a mettere in scena stamani, con accanto la povera creatura che ha perso tutti i suoi figli nelle ultime tre guerre. Che bello sarebbe, davvero, se quegli occhi tristi e imbevuti di tenerezza fossero in realtà gli occhi di mia madre, gli stessi occhi che tento invano di ricordare attraverso la nebbia sempre più fitta di questi giorni grigi! Che io possa essere ancora un buon figlio, malgrado tutto, penso non ci sia il benché minimo dubbio, proprio perché ci sono momenti in cui sento la grande mancanza di un grembo morbido e caldo dove reclinare la testa e dormire tranquillamente: dormire, dormire, dormire, come se fossi solo un uccellino. E dove, in quale luogo della Cina o degli Stati Uniti, mi chiedo, ci potrebbe essere questo porto sicuro e senza morti, se non nel cuore di una vera madre o anche falsa, che accolga me e le mie afflizioni senza chiedermi nulla in cambio, anche perché non avrei nulla da offrire?

E sento così tanto in me questo figlio perso, in questo momento più che mai, che dirò al portiere dell’hotel che le permetta di visitarmi quante volte voglia, questa madre triste e senza figli che non ha avuto vergogna di piangere sulla mia spalla, in presenza di estranei e di agenti della più perfetta rete di controspionaggio della quale ho conoscenza. Insomma, malgrado tutto, può essere davvero che uno dei suoi figli si sia veramente reincarnato in questo mio corpo debole e malato, sebbene io non creda molto in queste cose, e neanche in qualsivoglia altra cosa passata, presente e futura.

Capitolo 99

Scarseggiano sempre più le informazioni che abbiamo sull’esterno – sia dalla città, sia dalla campagna –, il che mi porta a credere che siamo davvero assediati da tutti i lati e alla vigilia di avvenimenti funesti e imprevedibili.

È stato solamente ieri, e per caso, che il degno rappresentante dell’imperatore della Russia è venuto a conoscenza che l’imperatore della Russia non esiste, il che l’ha portato a disperarsi per un po’ e gli ha fatto generare un piccolo tumulto durante il pasto – non so dire se a pranzo o a cena considerato che la giornata era molto buia. Alla fine si è calmato grazie alle parole sensate del Dr. Keither che gli ha fatto notare che, siccome l’imperatore della Russia non esiste, sarebbe potuto benissimo diventare rappresentate dell’imperatore dell’Abissinia, e gli ha fatto ricoprire subito l’incarico.

L’effervescenza politica, tra l’altro, è il clima frequente e ormai in parte monotono di queste riunioni a pranzo e a cena, quando tutti cercano contemporaneamente di difendere le proprie convinzioni o la mancanza di convinzioni (nel mio caso) con l’ardore che provoca il rumore delle posate sopra i piatti o la semplice presenza dello spezzatino con le patate parsimoniosamente servito dal personale. Per quel che mi riguarda mi limito a mangiare e a osservare con la coda dell’occhio i miei bellicosi compagni, arrischiandomi soltanto a un parere ogni qualvolta mi obblighino le circostanze, come nel caso di quel tizio che voleva convincermi per forza che lo scià di Persia fosse più potente dello scià dell’India, che ho conosciuto personalmente. Non fosse per il regolamento dell’hotel che proibisce fermamente l’uso di coltelli durante i pasti (e anche al di fuori di essi), non so a che guerra civile saremmo condotti quotidianamente dal fervore di queste discussioni apparentemente senza importanza, ma a dire il vero di un’importanza storica decisiva, come poi si vedrà un giorno, o anche una notte.

Ma il punto è che, per consolare in parte l’ancora inconsolabile rappresentante dell’imperatore della Russia, che ora lo è solamente dell’imperatore dell’Abissinia, mi sono ritrovato nella circostanza di promettergli alcuni aforismi da me composti, per la sua collezione di aforismi celebri o quasi celebri, di cui sempre ieri mi stava parlando in tono di assoluta confidenza. In realtà è da molto tempo che non mi dedico a questo genere letterario in generale tanto apprezzato, soprattutto tra gli antichi, ma credo che con un po’ di sforzo potrò assolvere l’incombenza, soprattutto perché oggi, come tutti i giorni, il tempo mi è d’avanzo in una maniera incredibile e l’insonnia mi sorveglia con quella perseveranza di cui solo lei è capace. Ma vediamo cosa ne esce:

  • Gli uomini, le pulci e i ratti si assomigliano in questo: che oggi sono vivi ma domani saranno morti, irrimediabilmente morti, e per sempre.
  • Nella grande corte dove al mattino prendiamo il sole non c’è sempre il sole, il che dimostra l’incuria del governo e l’irresponsabilità di quelli che paghiamo perché ci sia dato il sole, dato che non ci possono dare la libertà.
  • Se Napoleone Bonaparte non fosse esistito, che ne sarebbe stato dei suoi figli e dei suoi nipoti e di tutti i suoi sosia e finti sosia, che si arrogano questi titoli come delle cose più importanti del mondo? Che risponda suo nipote guercio, ammesso che lo sia veramente.
  • La moglie del direttore è strabica ma ha un bel paio di gambe, il che è pur sempre una compensazione. (No, questo non è propriamente un aforisma.)
  • La notte la luna viene dall’Asia, ma può non venire, il che dimostra che non tutto a questo mondo è perfetto.
  • Quando uscirò da qui, ucciderò a sassate il dottore che ha ucciso mio fratello in ospedale e che non è stato ancora punito. Peccato che non possa sentire le sue stesse grida, visto che è sordo.
  • I fiori hanno il profumo che la terra dà loro senza essere profumata. Così, anche noi dobbiamo dare ai nostri atti quello che non abbiamo in noi ma di cui siamo veramente capaci e che non morirà con la nostra morte.

Siccome il cameriere del turno di notte è venuto a spegnere la luce della mia stanza, questo è l’ultimo aforisma che scrivo, facendolo al buio e in protesta.

Capitolo Venti

Ci sono momenti in cui mi sento più lucido, e ce ne sono altri in cui, al contrario, sento una strana presenza dentro di me, come se dovessimo essere gemelli ma fossimo nati in due in un corpo solo. Questo mio fratello sepolto in me mi spinge a scene da vero sciocco, se non da disperato, com’è successo poco fa, quando io volevo dormire ma lui insisteva a provare un nuovo passo di danza, piroettando per la camera completamente nudo. Se c’è chi crede nella metempsicosi, io ho il diritto di credere nella duplicità del mio essere o, anzi, nell’esistenza occulta di mio fratello gemello dentro di me e che un giorno spunterà dal mio corpo, come un dente del giudizio in ritardo. Molti mi giudicheranno eccentrico per questo motivo, e lo so che giudicano, ma il punto è che io sono solo sincero e non sono abituato a nascondere le perplessità alle quali la mia natura mi sottopone, come fanno le altre persone.

Le altre persone, tra l’altro, si riassumono per me in una persona sola: il mondo, o, come generalmente si dice, todo mundo; ed è mio dovere preservare la mia individualità (o la mia duplicità, poco importa) contro la presenza opprimente di questo mostro dalle mille teste che tenta di calpestarmi e ridurmi alla misera condizione di stuzzicadenti, sebbene con la capocchia di fosforo. Apprezzo estremamente certe persone – il dr. Keither è tra quelle, con la sua filosofia e il suo premio Nobel per la Chimica nel 1952 – ma sinceramente non vedo perché dovrei rinunciare a ciò che sono, in presenza di estranei e che certamente avranno la propria individualità da preservare. Su questo punto non cedo nemmeno di uno dei miei capelli e sono disposto a soffrire tutti i martìri e tutte le torture che vogliano infliggermi qui o in qualsiasi altra parte del mondo, come del resto succede da quando sono nato. Morirò povero e confinato tra queste quattro pareti, marchiato come spia o come eccentrico nocivo agli alti interessi dello Stato e di chi vive alle spalle dello Stato, che è la stessa cosa; ma morirò io stesso e nessuno di più – io e mio fratello gemello, al massimo – e questa fedeltà al mio corpo sarà il mio unico titolo di gloria, ammesso che mi serva un titolo di gloria per qualcosa.

Una volta, nell’Esercito, un vecchio sergente, col pretesto di infondermi nello spirito la teoria del tiro, mi ha afferrato per il collo e mi ha scrollato violentemente varie volte, sollevandomi a un’altezza ragionevole dal suolo. L’ho lasciato scrollarmi quanto volesse, senza una sola parola di protesta, anche perché lo strangolamento era molto ben fatto e riuscivo a respirare a malapena; non appena mi sono visto sulla terraferma, però, gli ho sferrato con le dita due violente stoccate dritte in mezzo agli occhi, accecandolo immediatamente. È stato mandato in pensione con lo stipendio pieno, secondo quanto ho saputo, e io ne sono uscito illeso e sempre più conscio della mia ignoranza in materia di balistica e di carneficine eroiche, visto che del resto spero di vivere fino alla fine dei miei giorni.

Un’altra volta un’arciduchessa ungherese, dalla vita facile ma non così facile quanto sembra, si è innamorata del mio corpo nel bel mezzo della città di Cracovia, offrendomi in cambio i suoi bei seni, la sua voce da contralto e un profumo di bosco umido che non ho ritrovato in nessun’altra donna, viva o morta. Finché si è accontentata di usare il mio corpo come se fosse di sua proprietà, non ho avuto nulla da obbiettarle, anche perché i tempi erano difficili e il suo letto e la sua tavola erano perfettamente godibili; fin quando, una certa notte, tra una copula e l’altra, ha voluto convincermi della necessità che prendessi parte a un complotto terrorista nella sua bella patria, invocando a tal fine ragioni sentimentali e altre che non mi riguardavano, l’ho abbandonata immediatamente e scoppiando in una lunga risata fragorosa le ho tirato un vaso di fiori in testa, il che mi è costato due giorni e mezzo di prigione.

Anche nel Conservatorio di Varsavia, dove ho imparato a suonare il berimbau col professor Hepsteimm, ho avuto l’opportunità di dimostrare, una volta, il mio attaccamento incondizionato alla mia libertà morale, quando ho fatto volare in aria la tuba e il clarinetto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, con un calcio destinato al musicista idiota che mi chiamava straniero, io che sono il più perfetto esempio di cittadino del mondo del quale si è avuta notizia finora. Ho generato un leggero caso internazionale con questa mia attitudine simultaneamente intempestiva e tempestosa, ma perlomeno mi sono mantenuto integerrimo e sovrano della mia profonda individualità, e non ho dovuto poi vergognarmi davanti allo specchio.

Ora, in questa sessanta milionesima insonnia che attraverso a occhi aperti e col cuore angosciato, mi resta almeno la certezza che sono veramente io e nessun altro, o, ancora una volta, io e mio fratello gemello ancora sepolto in me e che un giorno verrà a galla come un naufrago di tre giorni. Le pareti mi trattengono dentro questa camera di hotel senza alcuna bellezza; mi proibiscono per motivi politici di uscire in strada e, addirittura, di sapere in che città sono esattamente, io che sono un globe-trotter e amante di tutti gli orizzonti; mi costringono alla vergogna di dover prendere tutte le notti una dose di siero della giovinezza, io che non sono ancora vecchio e che non intendo neanche, un giorno, tornare a essere giovane, io che non lo sono mai stato davvero; mi spìano da ogni lato, addirittura quando sono solo in bagno, come se fossi un criminale qualunque e non un ospite con tutti i diritti che la legislazione degli ospiti garantisce loro, sia qui che in Cocincina – una cosa però non me la prendono, loro, le spie di ogni nazionalità, le prostitute ungheresi o addirittura iugoslave, i falsi amici e soprattutto quelli veri, i membri di tutte le orchestre sinfoniche dell’universo, i ragazzi della polizia nazionale e internazionale; i pugili o i lottatori di jiu-jitsu di tutte le categorie o fasce: e è la consapevolezza che ho di me, di essere solo e sempre più di mia proprietà, esclusiva, indivisibile, una, prima inter pares, nec plus ultra, e altre citazioni latine che siano necessarie e convengano a una conclusione di un capitolo così importante come questo, senza dubbio il più importante che ho scritto finora e che scriverò in tutta la mia vita da cavaliere errante.

Capitolo I (di nuovo)

Avevo proprio ragione a sospettare. Si è dissipata alla fine la cortina di fumo che celava in parte il mistero di questo hotel internazionale nel quale mi hanno buttato da più di venti anni. Non siamo in un hotel, bensì in un terrificante campo di concentramento, con torture e tutto il resto, a giudicare da quella che mi hanno inflitto ieri.

Mi hanno portato, la mattina presto, in una camera a gas dove c’era una sedia elettrica (che subito ho constatato essere un letto e non una sedia) sulla quale senza dubbio pretendevano di estorcermi qualche segreto di Stato, di cui sono portatore ma che sinceramente ignoro quale sia. Mi hanno fatto sdraiare in questo pseudoletto, completamente nudo e legato – con tutta una squadra di guardie accanto, travestiti da infermieri – e mi hanno messo in testa una specie di casco di acciaio (un po’ più comodo, senza dubbio) dal quale uscivano palesemente un paio di fili elettrici.

Non mi hanno dato nessuna possibilità di difendermi; infatti non mi hanno chiesto nulla e neanche hanno risposto a nessuna delle mie domande, come se fossi già un caso perso e nessun tribunale potesse esaminarmi. Legato com’ero, e imbavagliato come un cane rabbioso, ho visto perfettamente quando hanno collegato una chiave elettrica che si trovava vicina proprio alla porta d’entrata – e ho sentito la morte sfracellarsi contro la mia testa, come se un bolide fosse caduto dallo spazio e avesse scelto precisamente il mio cranio come campo di atterraggio. Non posso dire di aver gridato, anche perché non ho avuto né il tempo né la lucidità per farlo, ma quello che affermo è che mi sono trasformato istantaneamente in un cadavere e mi sono sentito più freddo di un cubetto di ghiaccio buttato nella cella di un obitorio.

Ogni tanto un pallido riflesso di coscienza spuntava nella mia testa immobilizzata e intravedevo il soffitto a una distanza infinita e sentivo le folli voci dei miei boia, come in un quadro surrealista o in una scena del Grand Guignol; in un attimo, però, tutto spariva di nuovo e tornavo alla mia condizione di cadavere congelato, allo shock brutale di una bomba che mi faceva saltare il cervello.

Quando sono tornato in me, dopo la risurrezione della carne, mi trovavo sdraiato e immobile nel mezzo del mio letto, senza nessun altro pensiero che non fosse quello di respirare profondamente e di ascoltare il battere del mio proprio cuore, così incredibili mi sembravano queste cose così semplici ma che in effetti sono incredibili e degne della più grande considerazione.

Ora chiedo: cosa vogliono da me, veramente, questi signori e queste signore che fino a ieri credevo essere i direttori e i camerieri di un hotel di lusso, anche se mi aveva sempre insospettito il severo regime di sorveglianza al quale ero, come tutti gli altri ospiti, sottoposto giorno e notte, e addirittura anche durante il sonno? Che segreto importantissimo è quello che mi vogliono estorcere con la forza, ricorrendo anche alle minacce più terribili, come questa estrema della sedia elettrica, senza un processo sommario e senza il conforto almeno di un confessore?

Che io mi ricordi, ultimamente non ho fatto nulla per meritarmi un castigo così capitale, né custodisco in me un segreto che non possa essere rivelato a porte aperte e a pieni polmoni, o che mi faccia diventare sospettato di lesa maestà, o lesa patria, o anche di lesa santità, anche solo per citare i tre crimini più gravi che al momento mi sovvengono.

Ci troviamo, per caso, in una nuova Inquisizione, o sarà sempre uguale a quella antica che non ha mai smesso di esistere e che solo ora, per la prima volta, si è fatta sentire in tutta la sua grandezza sul mio petto stanco e il mio sguardo triste, per cause a me sconosciute e che agli altri paiono ovvie? (Sarò così eretico, io che non ho neanche mai pensato di creare un dio a mia immagine e somiglianza e di adorarlo come si adora un signore onnipotente, con servile ipocrisia?) O sarà che effettivamente sono un agente segreto di qualche potenza straniera – tanto segreto da non saperlo neppure io – e che, dotato di doppia personalità, stia posando a santo in questo momento, finché loro non provino il contrario e mi sbattano la mia verità in piena faccia? Tutto è possibile in questo mondo di infinite sorprese, e quello che resta a me, come a loro, è solo aspettare che gli eventi si succedano per conto proprio e che arrivi a rivelare un giorno, con le buone o con le cattive, il mio terribile segreto, o – che sarà ancora più triste – la mia disperata innocenza.

Bibliografia

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Sitografia

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Filmografia

L’âge d’or, diretto da Luis Buñuel. 1930; Francia.

Note

  1. Tralasciando i rimandi a titoli celebri di canzoni, di opere teatrali ma anche di famose opere letterarie è più interessante evidenziare le citazioni tratte da De imitatione Christi, noto libro sulla pietà cristiana di epoca medievale e di difficile attribuzione autoriale, e da Una furtiva lagrima, aria dell’opera L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Inoltre, secondo me, è anche possibile notare un rimando al film surrealista di Buñuel, L’âge d’or (1930). Mi riferisco ad alcuni elementi che compaiono in quello che è chiamato Capítulo Negro, nello specifico la metafora con l’uomo cieco e i suoi occhiali, ma anche la fobia che il narratore-protagonista manifesta nei confronti di scarafaggi e di scorpioni.
  2. Una versione aggiornata dello stesso intervento è stata caricata dell’autore sul suo profilo della piattaforma Academia.edu, consultato il 20/07/2021, URL: <https://www.academia.edu/6541702/Surrealismo_no_Brasil_poesia_e_cr%C3%ADtica_liter%C3%A1ria?source=swp_share>.
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