«A Deo sed per populum»: la duplice elezione di Goffredo nella Gerusalemme liberata

Compagni e ministri

La vicenda narrativa della Gerusalemme liberata si apre con l’elezione divina di Goffredo a capitano dell’armata crociata: è questa a determinare il nucleo della nuova struttura gerarchica voluta da Tasso per l’esercito e a delinearne il profilo. Proprio alle parole d’investitura occorre prestare primariamente attenzione: «Io qui l’eleggo; e ’l faran gli altri in terra, / già suoi compagni, or suoi ministri in guerra» (Tasso 2006 I, 12, 7-8).  La nuova gerarchia si delinea a partire dalla mutata condizione che Dio stabilisce per il comando cristiano: all’elevazione di Goffredo a capo supremo della spedizione («ei capitan fia d’essa») corrisponde il passaggio degli altri duci da uno status di «compagni» del capitano a quello di suoi «ministri». Si assiste, pertanto, al mutamento da una condizione paritetica ad una di sudditanza, mutamento scandito dall’opposizione tra gli avverbi temporali («già» / «or») e da quella tra i sostantivi. In riferimento a questi ultimi, non è superfluo osservare, da una parte, come «compagni» sia, anche politicamente, lemma della parità di grado: esemplari risultano le occorrenze di tale forma nei Discorsi di Machiavelli, dove «compagni» sono, ad esempio, i nove che con Appio Claudio completarono il decemvirato di Roma (cfr. Machiavelli 2016, I, 40), ovvero le città e gli stati alleati e non, invece, «sudditi» o «servi»1. Dall’altra, come «ministri» si riferisca a figure rappresentanti una fondamentale forma di subalternità: nella latinità, minister poteva valere semplicemente per servitore o indicare, più specificamente, i funzionari imperiali e di altre cariche di governo2, mentre, per identificare la figura del ministro tra XV e XVI secolo, riscontro utile offre ancora l’opera del segretario fiorentino, ad esempio al capitolo VI dell’Arte della guerra in cui si tratta di come «ordinare uno alleggiamento», nel quale, agli ordini del capitano, devono essere «i ministri  pronti a disegnarlo e i soldati presti a cognoscere i luoghi loro». O anche nel Principe: si pensi al capitolo in cui sono distinte le tipologie di principato, a seconda che questo sia retto «per uno principe e tutti li altri servi, e’ quali come  ministri, per grazia e concessione sua, aiutano governare quello regno; o per uno principe e per baroni e’ quali non per grazia del signore, ma per antichità di sangue, tengono quel grado» (Machiavelli 2006, IV), o a quello in cui si spiega che «non è di poca importanza a uno principe la elezione de’ ministri» (Machiavelli 2006, XXII) e come è bene che questi siano scelti. I ministri sono insomma figure strettamente legate alla sfera semantica governativa e all’organizzazione politica degli stati.

Con identica accezione, nel dialogo De la dignità, Tasso menziona «que’ pochi che dal principe son eletti per ministri del governo» e, nel Discorso intorno alla sedizione nata nel Regno di Francia l’anno 1585, sottolinea come i principi, rispetto a Dio, siano a loro volta «signori subalterni e ministri inanzi che non di Stati e de’ regni». Nella Risposta di Roma a Plutarco, il parere di Platone che, nelle Leggi, «mette la fortuna con Dio al governo delle cose umane» è accettato solo a patto che «non se gli dia [la fortuna] per compagna, né per eguale», ma «a guisa di serva e di ministra faccia il suo officio», con manifesta contrapposizione tra la parità e la dipendenza significate rispettivamente da «compagna» e «ministra». Questo aspetto, nella Liberata, è chiarito ulteriormente una volta avvenuta l’elezione di Goffredo, quando si enunciano i suoi nuovi compiti («…esser sue parti or denno / deliberare e comandar altrui: Tasso 2006 I, 33, 1-2) e quanto invece spetterà agli altri principi, che «già pari, ubidienti al cenno / siano or ministri de gl’imperii sui» (Tasso 2006, I, 16, 5-8): usando le parole di Betül Dilmac, «the former pari are degraded to ministri, who owe absolute obedience» (Dilmac 2015: 291). Già in precedenza, del resto, la sottomissione dei «pari» era stata annunciata dall’Arcangelo Gabriele nel comunicare a Goffredo il decreto celeste:

Tu i principi a consiglio omai raguna,
tu al fin de l’opra i neghittosi affretta.
Dio per lor duce già t’elegge, ed essi
sopporran volontari a te se stessi. (Tasso 2006 I, 16, 5-8)

La seconda elezione di Goffredo

Il potere sul campo cristiano passa quindi da una gestione oligarchica o, comunque, plurima a una monarchica, nel senso più ampio dell’aggettivo. Ciò avviene, come detto, a partire dalla volontà divina che stabilisce l’investitura, ma si concretizza attraverso un altro fondamentale momento, a cui è fatto riferimento e nelle parole di Dio e nella loro comunicazione per il tramite angelico, che è l’elezione terrena di Goffredo da parte degli altri principi. Se il Dio che sceglie dall’alto l’individuo meritevole di esser posto a capo della comunità a lui cara è coerente con quello presentato dall’Antico Testamento, elemento innovativo è proprio il ruolo accordato all’azione umana, operata, in questo caso, dagli «altri»: a questi spetterà, per esplicita dichiarazione divina, confermare ovvero riprodurre «in terra» il decreto celeste. È poi la voce stessa del narratore, commentando la reazione immediata dei «duci» al discorso di Pietro l’Eremita, a palesare la presenza e l’influsso dello Spirito Santo sulla scena:

… Or quai pensier, quai petti
son chiusi a te, sant’Aura e divo Ardore?
Inspiri tu de l’Eremita i detti,
e tu gl’imprimi a i cavalier nel core (Tasso 2006, I, 32, 1-4)

Gli studi sulla Liberata sembrano trascurare la particolarità insita in questa sorta di doppia elezione celeste e terrena, che nel poema rappresenta la dinamica con cui il potere supremo ha origine ed è assegnato e risulta, a ben vedere, di notevole interesse: infatti, l’idea che l’imperium derivi da Dio, ma attraverso il tramite dell’elezione umana, è propria di una delle più fortunate dottrine sulla regalità, che nasce nel Medioevo e attraversa la riflessione politica fino al pieno XVI secolo. Si consideri, ad esempio, la chiosa della Glossa ordinaria di Accursio, la più importante raccolta di commenti al Corpus iuris civilis e corredo di quasi ogni edizione della grande opera giustinianea fino al XVII secolo, al passo delle Novellae Institutiones in cui si afferma, circa l’origine divina dell’impero, che «imperium propterea deus de caelo constituit»3: il commento specifica «immo populus Romanus de terra […]. Sed Deus constituit permittendo, et populus, Dei dispositione. Vel dic, Deus constituit auctoritate, populus ministerio»4.

Il tutto risulta molto simile alle parole conclusive dell’investitura divina di Goffredo: Dio lo elegge «qui», vale a dire in cielo, «gli altri», gli uomini, lo eleggeranno «in terra», mentre al ministerium della glossa potrebbe alludere il «ministri» con cui si descrive la nuova condizione degli elettori terreni. Non si dimentichi, inoltre, come la sequenza dell’investitura celeste sia scritta sul calco di quella con cui, nell’Italia liberata dai Goti, Dio elegge proprio Giustiniano per la liberazione d’Italia, e ciò istituisce in partenza un’implicita relazione tra Goffredo e l’ultimo restauratore dell’impero romano, tra «Gierusalem soggetta» e la «misera Italia» che «vive suggetta», tra l’esperienza crociata e quella dell’impero.

Prima di approfondire questo aspetto, però, vale ancora la pena soffermarsi sul tema dell’elezione: la teoria presentata attraverso la glossa accursiana, che combina origine divina e popolare del potere imperiale5, ha – come detto – ampia e durevole fortuna e numerosi interpreti, di cui offre un ricco quadro per ciò che concerne il Medioevo, Ernst Kantorowicz in The King’s Two Bodies (Kantorowicz 2012) 6: tra questi spicca Giovanni da Parigi, autore di un trattato De potestate regia et papali in cui si afferma che l’impero è assegnato «populo seu exercitu faciente et deo inspirante»7 («the briefest formula for that cooperation of God and people»: Kantorowicz 2012: 296), quindi il rapporto tra ispirazione divina ed elezione umana nel conferimento del potere sovrano. Altre interessanti riprese del motivo nella trattatistica politica medievale sono quelle di Marsilio da Padova, che nel Defensor pacis attribuisce la nascita dei principatus alla mente e all’arbitrio umani ma attraverso l’azione di Dio come «causa remota» (Marsilio 2001, I, IX [2])8, e Guglielmo di Ockham, che tratta il tema nel Dialogus, dove si legge che «potestas imperialis et universaliter omnis potestas licita et legitima est a Deo non tamen a solo Deo. Sed quaedam est a Deo per homines et talis est potestas imperialis quae est a Deo sed per homines»9 e, ancora, che «Romanum imperium fuit primo institutum a Deo et tamen per homines, scilicet per Romanos»10. L’idea di fondo comune, sintetizzabile nella massima «omnis potestas a deo sed per populum» falsamente attribuita a Tommaso d’Aquino (cfr. Bruguière 1998), esprime una «notion of legitimacy […] re-emphasized by later Thomists, in the XVI century by Molina and Suárez particularly» (Schabert 1986: 99): è infatti nel pensiero politico dei giuristi-teologi appartenenti alla cosiddetta scuola di Salamanca che questa raggiunge gli sviluppi più interessanti11, attraverso una teoria del potere sovrano che «is, and is not, at the same time, a theory of divine right» (Hamilton 1963: 41).

Un rapido quadro delle idee portate avanti dai tomisti spagnoli può partire dalle posizioni di Francisco de Vitoria e Luis de Molina, secondo i quali «God is the immediate, formal, and final cause of any political power, whereas man functions as its material cause that actually enables a prince to govern» (Tellkamp 2014: 151): in particolare, Vitoria (De potestate civili, 1528) ritiene la potestas regia derivante da Dio, l’auctoritas conferita dalla comunità (De potestate civili 8, 14-17, mentre Molina (De iustitia et iure, 1593) accentua l’origine positiva della potestas alla base dei governi, che deriva «immediate a respublica» e «mediate a deo» (Molina 1733, tr. II, disp. XXVI)12. Su questa linea di pensiero si colloca un altro dei primi esponenti della scuola di Salamanca, Domingo de Soto, che analizza l’origine del potere sovrano nei De iustitia et iure libri decem con una formulazione di estremo interesse ai fini della presente relazione:

Congregata vero respublica neutiquam se poterat gubernare, hostesque propulsare, malefactorumque audaciam cohibere, nisi magistratus deligerer, quibus suam tribueret facultatem: nam alias tota congregatio sine ordine et capite, neque unum corpus repraesentaret, neque ea providere posset, quae expedirent, ergo eadem ratione doctae divinitusque instructae respublicae, aliae annales Consules, aliae alias publicarum administrationum formas sibi instituerunt. Atque eodem iure quaelibet potuit ac debuit, ubi expedire cognosset, totam suam potestatem et imperium in unum regem (qui secundum Aristotelem optimus genere suo est principatus) transferre: ut lege saepe citata, quod principi placuit, sancitur: penes quem summa esset rerum. Ecce quemadmodum publica civilis potestas, ordinatio Dei est: non quod respublica non creaverit principes, sed quod id fecerit divinitus erudita (DE SOTO, IV, quae. IV, art. I).

Ultimo esempio da addurre13 è quello relativo al pensiero di Francisco Suárez, secondo il quale «nullus principatus politicus est immediate a deo», in quanto «omnis potestas a Deo per populum libere consentientem» (Suarez 1613 III, 2): secondo il gesuita spagnolo, insomma, «only the church’s authority comes immediately from divine law, while all temporal authority proceeded from that law only mediately […]. The mediator, however, is not the Church but the people constituted as a political community» (Hermann 1995: 504); il «corpus politicum» della comunità, formatosi dall’associazione spontanea degli individui uniti da un fine comune (cfr. De Legibus III, 2.4) e depositario della potestas civilis, può quindi scegliere liberamente («ex consensu communitatis») di trasferire la potestas a un principe ed essergli soggetta, qualora ciò sia utile al conseguimento del bene collettivo, fine ultimo della comunità stessa, attraverso un pactum reciproco14.

La rassegna di teorizzazioni appena proposta sull’origine della potestas regia mostra come l’idea di una sua derivazione in parte divina e in parte umana si sia sviluppata progressivamente fino a fiorire in grado maggiore proprio nella riflessione politica contemporanea e immediatamente successiva a Tasso, e autorizza quindi, per la dinamica elettiva della Liberata, una proposta di lettura nel solco di questa linea di pensiero così densa di fermenti nel Cinquecento15, che presenta il concorso di volontà divina e umana nella nascita dei governi e la base filosofico-teologica in grado di sostenere il preciso sviluppo dell’elezione del capo nel poema. L’assoggettamento volontario prefigurato dalle parole dell’angelo («ed essi / sopporran volontari a te se stessi»), considerato all’interno dell’intera sequenza dell’elezione16, è forse l’elemento più interessante in tal senso, poiché traduce poeticamente un elemento fondamentale del pensiero dei teologi salmantini sull’origine del governo, cioè l’idea della subiectio voluntaria. Emblematico è ancora il pensiero di Francisco de Vitoria al riguardo, ben riassunto e spiegato da Mariano Fazio:

Secondo i principi vitoriani appena esaminati, l’autorità è conferita da Dio direttamente alla comunità. Tuttavia, tale autorità passa, attraverso l’intervento delle volontà umane, ai governanti. Vitoria riprende così, la teoria della translatio imperii, formulandola in maniera precisa. Nell’opera in esame [De potestate civili], l’autore afferma che «sebbene il re sia posto a governare dalla repubblica stessa, questa non trasferisce al sovrano la potestà ma la propria autorità e non esistono due potestà, una del re e l’altra della comunità». La natura giuridica di tale atto si caratterizza come una donazione di autorità ai principi da parte della comunità. Si tratta di una facoltà per la quale la comunità si caratterizza sia come soggetto ricettore, avendo ricevuto un bene da Dio, che come soggetto trasmissore nei confronti dei governanti. Questa trasmissione, è effettuata mediante un atto volontario, l’autore, infatti, vi si riferisce usando verbi come donare e concedere. Questa concessione è espressione di un consensus communis, che ci mostra il carattere contrattuale di tale atto. I membri della comunità trasferiscono l’autorità ricevuta da Dio ai governanti mediante un accordo comune. Il consensus communis, da cui proviene il potere civile, comprende inoltre la subiectio voluntaria all’autorità costituita (Fazio 1998: 42).

Attraverso le idee di subiectio voluntaria e di libera electio, cardini della nuova riflessione politica destinata a evolversi e sfociare nel giusnaturalismo secentesco, si può perfettamente descrivere la dinamica elettiva del poema. Come rileva Franco Tomasi, nel commento a Gerusalemme liberata I, 33, 5-6, l’elezione di Goffredo «anche se segretamente promossa da Dio, è un atto volontario dei suoi capitani» (Tasso 2009, n. a I, 33, 5-6): un atto volontario che costituisce il fondamento del governo, analogamente a quanto affermato dal pensiero della Seconda scolastica. Si noti, però, che teorie politiche dei primi maestri salmantini, Vitoria su tutti, sono caratterizzate dalla messa in luce dell’elemento volontaristico terreno nell’atto fondativo di un governo che ha comunque la sua fonte autoritaria in Dio e nel piano provvidenziale. Come spiega Oliver O’Donovan, «if later contractarians found the essence of political rule in the capacity of a community to will as one, the constitutionalists found only the occasion. The source of authority for them was the will of God» (Donovan 1999:  237)17; e, soprattutto, «in appointing itself a head, society entered into a provision for political structure that God had decreed, and began to enjoy a power of political agency that it had not enjoyed while it was still acephalous. Society had no political authority otherwise»
(Donovan 1999: 237).

Deriva da Dio la potestas regia, come da Dio deriva, mediante natura, la possibilità della scelta umana di stabilire un governo e conferire la propria autorità ai governanti, sottomettendosi a questi e permettendo loro di esercitare il potere. Ci si può rifare alle parole dello stesso Vitoria:

Sed his relictis ad id quod dicebam antea reddeamus, scilicet regiam potestatem non esse a republica sed a Deo ipso ut catholici docti sentiunt. Item videtur quod regia potestas sit a Deo, dato quod reges a republica constituantur. Sicut namque summus pontifex ab ecclesia eligitur et creatur, potestas summi pontifex non est ab ecclesia sed a Deo ipso, ita videtur quod regia potestas sit a Deo, quamvis a republica reges creentur. Respublica namque in regem non potestatem sed propriam authoritatem transfert. Nec sunt due potestates, una regia altera communitatis, atque ideo sicut potestatem reipublicae esse a Deo et iure naturali constitutam asseruimus idem prorsus de potestate regia dicamus necesse est… (Vitoria 2008: 8)

Ecco allora come l’elemento divino dell’elezione di Goffredo, che sembra connotarsi in senso classicamente biblico nell’investitura celeste, risulta invece coerente anch’esso con la teoria politica contemporanea proprio nel verso decisivo «io qui l’eleggo, e ’l faran gli altri in terra»: l’intera ottava rappresenta la messa in versi del disegno provvidenziale, della voluntas Dei; così, eleggendo il capitano, Dio sta conferendogli il potere, ma, al contempo, “autorizza” l’elezione umana, ovvero la contempla e presuppone nel piano della Grazia (che vuole e deve permettere, in questo caso, il successo cristiano). Questa idea è chiarita ulteriormente dai già citati versi dell’annuncio angelico: l’elezione divina a «lor duce» è il conferimento della potestas di capo supremo, il sottomettersi volontario degli «altri», altrettanto necessario, l’atto attraverso cui Goffredo potrà concretamente esercitare tale potestas.

Fonti teoriche della duplice elezione

Tasso non omette di far cenno in sede teorica alle componenti divina e umana dell’elezione: nell’Allegoria si legge infatti che «egli [Goffredo], per voler d’Iddio e de’ principi, è eletto capitano in questa impresa. Però che l’intelletto è da Dio e da la natura constituito signore sovra l’altre virtù dell’anima, e sovra il corpo» (Tasso 1982: 327). L’impianto allegorico relativo ai personaggi del poema è costruito, come già osservato da Corrado Confalonieri, «sulla traccia dell’evidente modello della Repubblica di Platone» (Confalonieri 2013: 146) che fa coincidere le tre parti dello stato con le facoltà dell’anima tripartita: al filosofo, colui il quale deve governare nella città ideale, corrisponde la parte razionale dell’anima, che deve comandare sulle altre. L’Allegoria del poema segue da vicino l’argomentazione platonica, ma presenta, nel passo in questione, una significativa aggiunta, in quanto fa coincidere l’elezione duplice del “suo” governante con la derivazione divina e naturale del comando dell’intelletto sulle altre potenze dell’anima. Confalonieri, servendosi della polarizzazione formulata da Perelman (cfr. Perelman 1977), definisce il rapporto istituito tra la Repubblica e il poema mediante l’Allegoria come un «sistema analogico in cui il primo termine assume la posizione di foro e il secondo quello di tema, perché proprio l’applicazione del paradigma di referenza del dialogo platonico pretende di illustrare il funzionamento della Liberata» (Confalonieri 2013: 137); e, citando Perelman, osserva che «nel processo che punta a “chiarire il tema mediante il foro” accade talvolta “che l’uno o l’altro elemento del foro venga modificato per avvicinarlo al tema e rendere più convincente l’analogia”» (Confalonieri 2013: 138).

Quest’ultimo spunto aiuta a spiegare ciò che si è riscontrato nel luogo dell’Allegoria oggetto della nostra analisi: infatti, non vi è traccia nella Repubblica di una doppia elezione dei “guardiani” della città, né si riconduce la preminenza della facoltà razionale a una duplice costituzione da parte di Dio e della natura18. Il meccanismo operante è, insomma, quello di una modificazione del foro (la teoria platonica sull’anima tripartita e, più specificamente, sul governo della facoltà razionale) in virtù dell’aderenza al tema (in questo caso, l’elezione divina e umana di Goffredo). Si può osservare come a un governo per natura dell’intelletto faccia cenno Aristotele in Etica Nicomachea 1177a 12-18, dove afferma che «Sive utique intellectus hoc sive aliud quid, quod utique secundum naturam videtur principari et dominari et intelligenciam habere de bonis et divinis, sive divinum et ipsum sive eorum que in nobis divinissimum, huius operacio secundum propriam virtutem erit utique perfecta felicitas».

Per quanto il passo sia noto e centrale nell’Etica e l’Allegoria tenga senz’altro presenti tali argomentazioni dell’opera aristotelica, non trova comunque riscontro l’affermazione per cui «l’intelletto è da Dio e da la natura constituito signore». Ciò induce a confermare l’idea che, in questo caso, l’analogia sia costruita adattando il foro in funzione della dinamica del poema. E la doppia elezione rimane, pertanto, coerentemente comprensibile soltanto alla luce di una scelta di precisa teoria politica, fatto avvalorato proprio dal binomio Dio – Natura che sarebbe alla base del governo dell’intelletto come il binomio «voler d’Iddio» e «de’ principi» è alla base di quello del capitano: se, da una parte, non trova riscontro che il potere dell’intelletto sia istituito da Dio e dalla natura, ciò è precisamente attestato per quanto concerne il potere umano. Vale a dire: se il leader è eletto «per voler d’Iddio e de’ principi», e ai principi è fatta corrispondere la natura, questo duplice volere da cui Goffredo riceve il governo si traduce nei termini filosofico-politici dello ius divinum e dello ius naturalis. E che il potere supremo derivi da questo doppio ordine di “leggi” è ancora attestato nell’opera di Vitoria e dei primi maestri salmantini: «Atque ideo nos, praedictorum hominum calumniis reiectis, dicimus cum omnibus sane sapientibus monarchiam sive regiam potestatem non solum iustam esse et legitimam, sed dico autem reges iure naturali et divino potestatem habere, et non ab ipsa republica aut prorsus ab ipsis hominibus» (Vitoria 2008: 8).

Se l’origine della potestas è di immediata comprensione per quanto concerne lo ius divinum, occorre capire in che termini il potere derivi dallo ius naturalis: Vitoria lo spiega poco oltre, affermando come l’elezione di un capo a cui affidare la gestione del governo diventi ben presto una necessità per la comunità, incapace di esercitarlo sotto forma di moltitudine. Si giunge, in tal modo, alla formulazione della ben nota metafora organica del corpus politicum, ma in una riproposizione originale: la respublica non è in partenza un corpo in cui il leader coincide con il capo, ma un’entità acefala, che arriva alla necessità di istituire un capo per potersi governare e conseguire il suo fine, il bene dell’intero corpo.

Si può anticipare, a questo punto, come la nomina del capo nella Liberata passi proprio attraverso un processo di necessità, chiarito dal celebre discorso di Pietro l’Eremita: è la mancanza di un capo a generare «le discordie e l’onte», dunque una condizione di scontro tra i membri dell’esercito che tanto ricorda lo stato di scontro tra gli individui che la filosofia politica coeva vedeva nelle comunità ancora prive di un governo centrale. Solo la scelta di un capo può portare al compimento del fine comunitario: se, da un lato, le parole di Dio presentano l’origine divina del potere supremo, dall’altro l’elezione terrena nasce dalla presa di coscienza della sua necessità, dunque dalla comprensione umana di ciò che richiede l’ordine naturale, come si rileverà meglio dall’analisi puntuale del discorso dell’Eremita.

Bibliografia

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Note

  1. Cfr. anche Discorsi II, 4; II, 13. Ma si veda pure Discorsi II, 16, dove si osserva «come nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima de’ valenti uomini, ne’ tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l’uno per vedersi mancare del grado loro; l’altro, per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro».
  2. Cfr. la voce Minister in Glossarium Totius Latinitatis: «absolute, est homo liber, aut servus, qui alteri inservit, famulus, administer. […] De eo, qui alteri quomodocumque inservit. […] Qui res domini regit et curat. […] Judices sub dominis suis jus dicentes […] Minores officiales. Ministri regii. […] Comites, judices, villici regii, et alii hujusmodi, administratores Reipublicae.
  3. Corpus iuris civilis, Nov. LXXIII, pr. 1.
  4. Glossa ordinaria a Nov. LXXIII, pr. 1.
  5. Cfr. L’elenco, tuttavia, potrebbe ulteriormente ampliarsi con altre importanti personalità: si veda, ad esempio, la presenza del motivo in John Wyclif, per la quale rimando a William Farr, John Wyclif as legal reformer, p. 82.
  6. Cfr. id., The King’s Two Bodies: a study in Mediaeval Political Theology, p. 296-298 e n. Cfr. anche W. Kölmel, “A Deo sed per homines”. Zur Begründung der Staatsgewalt im Ordnungsverständnis des Mittelalters, in «Franziskanische Studien» 48, 1966, p. 308-335.
  7. Da Parigi, Giovanni, De auctoritate regia et papali, XIX. Giovanni rimarca in vari luoghi dell’opera tale idea, cfr. Kantorowicz, I due corpi… p. 97-98.
  8. Per un commento all’analisi di Marsilio sul tema si rimanda a George Garnett, Marsilius of Padua & “the truth of history”, p. 55 e 74-75 e a José A. de C. R. de SOUZA, Omnis potestas a Deo, sed per homines: Marsílio de Pádua e a causa eficiente ou a origem do poder secular, in m. l. l. de oliveira xavier (ed.), A Questão de Deus na História da Filosofia vol. I, Zéfiro, Sintra, 2008, p. 697-714.
  9. Guglielmo di Ockham, Dialogus III, 26.
  10. Guglielmo di Ockham, Dialogus III, 27.
  11. Sul pensiero politico della Scolastica spagnola, cfr. Bernice Hamilton, Political Thought in Sixteenth-Century Spain, Oxford, Clarendon Press 1963, p. 4-5: «Sixteenth-century Spain […] saw a great Thomist revival; its scholasticism was humanized by the literary bent of the Renaissance and directed by nominalist influence to apply morality to political problems. The theory taught in the universities […] was that of a Christian state […]. The influence of Roman law was felt more in a christianized version of the sovereignty of the people than in any idea of the ruler being above the law […]. The writers […] all assume an ordered universe; all adopt the Thomist hhierarchy of laws: the eternal law, governing all things; the natural law, written in men’s minds, through which they participate in the eternal law and distinguish good from evil; the positive divine or revealed law (Scripture) supplementing the natural; and positive human (civil and canon) law». Si rimanda altresì alla monumentale opera in tre volumi di Carlo Giacon, La Seconda Scolastica, Milano, Fratelli Bocca 1946, ristampata in tempi più recenti da Nino Aragno Editore, Torino 2004.
  12. Il passo è commentato da Annabel Bret, Luis de Molina on law and power, in Alexander Aichele, Mathias Kaufmann, A companion…, p. 155-174: 172.
  13. Fra i molti possibili in uno scenario di grande ricchezza quale fu quello della Seconda Scolastica e, in particolare, del pensiero politico gesuita: per un’analisi completa di quest’ultimo, si rimanda a Harro Höpfl, Jesuit Political Thought: The Society of Jesus and the State, c.1540-1630, Cambridge, Cambridge University Press.
  14. Si veda anche Defensio fidei III, 4.2: «Sequitur ex dictis potestatem civilem, quoties in uno homine vel principe reperitur, legittimo ac ordinario iure a populo et communitate manasse, vel proxime, vel remote, nec posse aliter haberi, ut iusta sit […] Haec potestas ex natura rei est immediate in communitate. Ergo ut iuste incipiat esse in aliqua persona tamquam in supremo principe, necesse est ut ex consensu communitati illi tribuatur» e Id. Defensio fidei III, 2.11-12: «quia nulli hominum dedit Deus immediate talem potestatem, donec per institutionem vel electionem humanam in aliquem transferatur […] (dicendum) regium principatum, et obedientiam illi debitam, fundamentum habere in pacto societatis humanae, ac subinde non esse ex immediata institutione Dei, nam humanum pactum humana contrahitur voluntat e […] ergo (lex regia) intelligi debet constituta per modum pacti, quo populus in principem transtulit potestatem sub onere et obligatione gerendi curam reipublicae, et iustitiam administrandi, et princeps tam potestatem quam conditionem acceptavit; ex quo pacto firma et stabilis permansit lex regia, seu de regali potestate». Sul tema, trattato in molti luoghi dell’opera di Suárez, si rimanda almeno ai contributi di Gómez Robledo I., El origen del poder político según Francisco Suárez, JUS, Mexico 1948 e Gemelli A., La sovranità del popolo nelle dottrine politiche di Francisco Suárez, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», 10 (1918), p. 97-98.
  15. Si noti come argomentazioni riconducibili alla massima pseudo-tommasiana non siano certo rintracciabili nella sola filosofia politica spagnola: si pensi alle posizioni, assai affini (e alle relative dispute con altri teologi contemporanei) di Roberto Bellarmino, per cui si vedano le ampie trattazioni di Stefania Tutino, Empire of souls: Robert Bellarmine and the Christian Commonwealth, Oxford University Press (Oxford Studies in Historical Theology) 2010 e Franco Motta, Bellarmino una teologia della Controriforma, Brescia, Editrice Morcelliana.
  16. Che può considerarsi racchiusa tra i vv. 7-8 dell’ott. 12 («io qui l’eleggo…») e l’ott. 34 (il Capitano neo-eletto si mostra ai soldati).
  17. Cfr. anche infra: «The absence of a natural political form has thrown the weight of the theory back upon an act of collective will. This element of voluntarism, which was, of course, to become much more marked in later political theory, was due to the lack of any other social ground for saying that this, and not that, should be the unit of political society. However, in the constitutionalist stage of the theory, the act of will does not account for the nature of political authority as such».
  18. Nella Repubblica, il primato della parte razionale è determinato dalla sapienza che la connota: cfr. Platone, Repubblica 439a-441c.
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