«Vent’anni di idiomi e di oceani diversi»: l’America nell’opera poetica di Cesare Pavese

Introduzione

«Camerado, this is no book, / who touches this touches a man» (Whitman 2013: 571). Sono queste le parole che a lungo hanno concluso le Leaves of Grass, raccolta che racchiude l’opera poetica di Walt Whitman e che potrebbero valere anche per l’opera poetica pavesiana. Questo avvertimento, posto invece all’inizio, vorrebbe aprire un lavoro che si propone di analizzare alcune delle varie anime di Cesare Pavese che, per dirlo ancora con Whitman, «contains multitudes» (Whitman 2013: 104).

Non è raro che il nome di Pavese venga subito associato alla sua attività di narratore e romanziere, e, anche quando si fa riferimento al suo rapporto con la letteratura americana, si pensa innanzitutto alla prosa e si analizzano i rapporti fra i romanzi americani (che Pavese ha fatto conoscere ai lettori italiani grazie alle sue traduzioni) e l’opera narrativa di Pavese. Quello che si è voluto fare in questo lavoro è stato approfondire l’anima americanista di Pavese, ma da un punto di vista meno privilegiato; quello dell’opera poetica. La scelta di parlare di opera poetica e non di poesie, (prendendo in prestito il titolo scelto da Sichera e Di Silvestro per un corposo volume pubblicato nel 2021) si ricollega alla decisione di dedicarsi non soltanto alle poesie in senso stretto, ma anche alle traduzioni poetiche di Pavese, che, nonostante la sua fama di traduttore di romanzi, è molto meno noto come traduttore di poesia.

La prima parte di questo articolo è dedicata principalmente all’influenza della letteratura degli Stati Uniti sull’opera poetica di Pavese, e prende in considerazione i temi che accomunano Pavese a due grandi poeti americani a lui cari: Edgar Lee Masters e Walt Whitman. A questa prima parte, ne segue una seconda, che si concentra sul lavoro di traduzione poetica sempre da Edgar Lee Masters e da Walt Whitman; per quanto riguarda Lee Masters, le traduzioni di Pavese sono affiancate da quelle dell’allieva Fernanda Pivano, che tradusse l’Antologia di Spoon River per Einaudi sotto la supervisione dello stesso Pavese; le traduzioni whitmaniane, invece, sono messe a confronto con quelle di Luigi Gamberale, consultate dal giovane Pavese durante i suoi studi, e in particolare durante la stesura della tesi di laurea nel 1930.

Antonio Sichera, concludendo una riflessione su Lavorare stanca, contrariamente alla prassi comune, che vede Pavese prima come prosatore e narratore e poi, solo secondariamente, come poeta, subordina il Pavese delle prose al Pavese dei versi e propone di ripartire dalle sue poesie per provare a comprenderlo a fondo:

Pavese finisce qui, l’itinerario poetico e interiore dello scrittore delle Langhe è, con queste poesie, già tutto compiuto. Alla narrativa non resterà che commentare la storia di un ragazzo capace di vivere in maniera irripetibile la propria stagione, ma anche proteso verso una normalità difficile, mai davvero ingenuamente fanciullo e mai totalmente schierato dalla parte dei padri dominatori della vita. La domanda che lo assilla – e che ancora ha senso per noi, lettori di un tempo in cui il dominio dell’immagine pare anestetizzare il sentimento e vanificare i corpi degli uomini reali – è se sia possibile mantenere vivo il desiderio senza uscire dalla fatica quotidiana del mondo. È da questa polarità (tutt’altro che scontata, dilaniante contraddizione) che bisogna partire per ricominciare a capirlo (Savoca e Sichera 1997).

Ci si addentrerà dunque in quei «vent’anni di idiomi e di oceani diversi» (Pavese 2020b: 7) che accomunano il cugino dei Mari del Sud e Cesare Pavese, che è stato in grado di esplorare quegli stessi mari lontani pur senza allontanarsi troppo dalla sua ordinata scrivania.

L’America di Whitman e Lee Masters nelle poesie di Lavorare Stanca

Nel 1930 un giovanissimo Pavese si dedica notte e giorno alle ricerche per la stesura della sua tesi di laurea su Walt Whitman e, rileggendo le parole del bardo americano, trova «il segreto di un’armonia profonda dentro la disarmonia e la contraddizione, considerate parti della vita stessa» (Sichera, in Pavese 2021: XV); secondo Sichera (in Pavese 2021: XV), questo è il momento in cui Pavese «comincia a diventare un poeta», abbandonando la tradizione a cui si era rifatto fino a quel momento e intraprendendo la via nuova del racconto. Questa via, a cui sicuramente è stato condotto dai testi whitmaniani, gli viene suggerita anche dalla Spoon River Anthology, che legge durante gli stessi mesi in cui lavora sui testi delle Leaves. Pavese sapeva di essere «uno dei tanti figli infradiciti dell’800» (Pavese 1966: 145) e l’incontro con i due poeti americani gli suggerisce come smettere la «maschera da poeta decadente» (Pavese 1990: 66-67) per indossarne una nuova: è all’ombra di queste due figure fondamentali che nasce finalmente Lavorare stanca.

Non è difficile rintracciare nelle poesie di Lavorare stanca elementi della Spoon River Anthology. Gli epitaffi dei morti di Spoon River suggeriscono a Pavese l’incontro fra poesia e narrazione: sulla Collina, le lapidi raccontano una storia e rendono eterni gli abitanti di quel villaggio sperduto nel Midwest che tanto assomiglia ai paesini delle Langhe che descrive Pavese. Nel suo secondo saggio su Lee Masters, Pavese afferma che «ciascuno di questi morti porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua. […] Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima» (Pavese 1990: 66-67); Pavese sembra fare lo stesso: attribuisce dei nomi ai suoi personaggi e inchioda alla loro anima dei simboli, che rappresenteranno per sempre sulla carta un momento della loro vita.

Da Lee Masters, Pavese non recupera soltanto la dimensione del racconto, ma anche quella fondamentale della memoria; se la via del racconto era una delle chiavi di lettura per comprendere il Lavorare stanca del ’36, il ricordo diventa qualcosa di imprescindibile nel Lavorare stanca del ’43: «lo sguardo retrospettivo che era inevitabile all’americano per la sua scelta di far parlare i morti è congeniale alla teoria pavesiana del vedere le cose per la seconda volta: “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”» (Capasa 2002). Al concetto di ritorno proprio dei cicli naturali si contrappone «il ri-cordo come tempo dell’anima, una specie di “ritorno” tutto onirico e interiore, che rompe il ritmo naturale, l’avvicendarsi delle stagioni, dei giorni e delle ore, per riportare alla luce e ridare vita a ciò che sembrerebbe ormai finito, consumato» (Savoca e Sichera 1997). Partendo da qui, si possono leggere alcuni dei punti di contatto individuati da Gabriella Remigi (2012) fra i morti di Spoon River e i personaggi pavesiani, a partire dalla vicinanza fra la voce di Hare Drummer, che domanda: «Vanno ancora i ragazzi e le ragazze da Siever, / a bere il sidro, dopo scuola, gli ultimi giorni di settembre? / O a raccogliere nocciole lungo le boscaglie nel podere di Aaron Hatfield quando incomincia la gelata?»1 e i versi di Una generazione che, come suggerisce Remigi (2012), trasformano la domanda in una «perentoria affermazione», quasi una risposta all’interrogativo posto dall’epitaffio di Hare Drummer: «Vanno ancora ragazzi a giocare nei prati dove giungono i corsi. / E la notte è la stessa» (Pavese 2020b: 65). Ancora una volta, è Hare Drummer a ricordare i giochi che si facevano ridendo da ragazzi, gli stessi giochi a cui Francis Turner, il malato di cuore sepolto sulla Collina, non poteva partecipare («Non potevo correre o giocare / da ragazzo»), e gli stessi passatempi vengono ricordati nei Mari del Sud: «Oh da quando ho giocato ai pirati malesi / quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta / che son sceso a bagnarmi in un punto mortale / e ho inseguito un compagno di giochi su un albero / spaccandone i bei rami e ho rotto la testa a un rivale e son stato picchiato / quanta vita è trascorsa» (Pavese 2020b: 7).

Abbandonando la via del ricordo, l’eco di Spoon River si fa sentire ancora una volta e, in questo caso, le parole che risuonano nelle poesie di Pavese sono quelle dell’epitaffio di Willie Metcalf, che, come tanti personaggi pavesiani, si ritrova a vagabondare, cercando di soddisfare il suo «panteistico desiderio di comunione con la terra» (Remigi 2007):

Di primavera vagabondavo per la campagna
per avere la sensazione, che talvolta perdevo,
che non ero un essere staccato dalla terra
Solevo perdermi come in un sonno,
disteso con gli occhi socchiusi nei boschi.
Qualche volta parlavo con bestie – perfino coi rospi e i serpenti –
ogni cosa che avesse degli occhi.
[…]
Non ho saputo mai se fossi parte della terra
e i fiori crescessero in me, o camminassi –
ora so2.

Nelle poesie di Pavese sono numerosi i personaggi che amano stendersi: l’eremita di Paesaggio I ha impregnato col suo odore la terra stessa e ha preso il colore bruno delle felci bruciate, i visitatori che salgono sulla collina per vederlo «si accasciano sopra una pietra» e lo trovano «steso, con gli occhi nel cielo, / che respira profondo» (Pavese 2020b: 13), in perfetta comunione con l’ambiente circostante; Dina (Pavese 2020b: 77), dal canto suo, ama crogiolarsi al sole completamente nuda e sentire il tepore dell’erba sulla pelle («è un piacere distendersi nuda sull’erba già calda / e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline / che sormontano i pioppi e mi vedono nuda / e nessuno di là se ne accorge»). Quest’ultimo tema, estremamente caro a Pavese, permette di collegarsi naturalmente alla sezione su Walt Whitman, il più famoso dei vagabondi, il magnificent idler3, il lounger per eccellenza, cui è impossibile non pensare quando si rammentano i corpi nudi e il loro desiderio di fusione panteistica con la natura.

Il cinismo pavesiano, che è il cinismo dei filosofi cinici, può essere considerato un fondamentale punto di contatto con Whitman; secondo Tiziano Scarpa (in Pavese, 2020b: V) il sogno di Pavese è quello di «vivere nudo, in una comunità di persone che ammettano di avere un corpo, di essere corpi dalla testa ai piedi, e che lo mostrino, sinceramente, sulla terra, a contatto con il suolo, senza mediazioni». Di certo, Whitman non si sarebbe dichiarato in disaccordo e, a conferma di questo, è sufficiente scorrere il Song of Myself per rintracciare nella seconda sezione due versi significativi, in cui l’io lirico esprime il desiderio di spogliarsi al cospetto della natura: «I will go to the bank by the wood and become undisguised and naked, / I am mad for it to be in contact with me»4 (Whitman 2013: 52-53). Certo, l’ottimismo che pervade i versi whitmaniani non riesce a contagiare quelli pavesiani, ma Remigi (2012) ricorda l’impressione di Armanda Guiducci (1967), secondo la quale era stato proprio l’atteggiamento «così estraneo alla capacità di sentire di Pavese» ad avvicinare il giovane al bardo: «la figura di Whitman dovette evidentemente appagare quest’ansia di primitivismo e di passionalità da sempre soggiacente, come condizione psichica profonda o volontà compensatrice, alla personalità di Pavese» (Remigi 2012).

I personaggi che si spogliano nelle Leaves non mancano certo di tornare e, questa volta, il confronto, (uno fra i più ricordati dalla critica) è fra il nudo nuotatore di The Sleepers (Whitman 2013: 482) e il cugino dei Mari del Sud; l’accento questa volta non viene posto sulla nudità, ma su di un termine che in Pavese sembra essere un esplicito prestito whitmaniano: come il nuotatore è, infatti, un gigante («I see a beautiful gigantic swimmer swimming naked through the eddies of the sea» (Whitman 2013: 482)), così è anche il cugino della poesia proemiale di Lavorare stanca:

I mari del Sud, anche considerando solo questa prima strofa, costituisce un ricco serbatoio di suggestioni tratte dalle Leaves: il cugino è un gigante, e questa è la prima caratteristica whitmaniana; è un gigante «abbronzato nel volto» (questa la seconda), come tanti personaggi pavesiani anneriti dal sole, e sano, come gli esseri che descrive Whitman, in The Prairie-Grass Dividing (Whitman 2013: 156) («Those of the open atmosphere, coarse, sunlit, fresh, nutritious»5), ed è (questa la terza somiglianza) un gigante taciturno: il suo silenzio è emblema, infatti, secondo Barbarino (2019), della frattura fra “io” e “noi” a causa della quale le azioni compiute dal singolo sono qualcosa di così individuale da non poter essere condivise o, meglio, parlarne risulterebbe inutile, e il cugino saggiamente si astiene dal farlo, quasi fosse a conoscenza delle parole di Whitman nel Song of the Rolling Earth:

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’esser stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
 
(Pavese 2020b: 7)

Each man to himself and each woman to herself, is the word of the past and present, and the true
word of immortality;
No one can acquire for another – not one,
Not one can grow for another – not one6.
 
(Whitman 2013: 249)

Fra le moltissime «tangenze tematiche e lessicali» (Savoca e Sichera 1997) fra Whitman e Pavese, sarà fondamentale ricordare, infine, il comune protagonista delle raccolte dei due poeti, ovvero il ragazzo, «proprio quel ragazzo “scappato di casa” che è la sostanziale figura di Lavorare stanca» (Barbarino 2019), il divino fanciullo, costretto ad accettare di essere diventato adulto nel momento in cui ha capito di non essere immortale: è il giovane dio di Mito, che, prima di farsi uomo, sembra aver vissuto la vita divina del comrade whitmaniano (Whitman 2013: 297) («Lover divine and and perfect Comrade, / Waiting content, invisible, yet, but certain, / Be Thou my God»7).

In conclusione, sembrerebbero valere, per Lavorare stanca, le parole di una strofa di Starting from Paumanok, che sottolineano, ancora una volta, come le radici dell’opera poetica pavesiana si trovino nelle Foglie whitmaniane:

The soul,
Forever and forever – longer than soil is brown and solid – longer than water ebbs and flows.
I will make the poems of materials, for I think they are to be the most spiritual poems,
And I will make the poems of my body and of mortality, For I think I shall then supply myself
with
the poems of my soul and of immortality8.
 
(Whitman 2013: 42)

Le traduzioni poetiche di Cesare Pavese

Senza dubbio uno degli aspetti più significativi della vita e della carriera di Pavese è il suo lavoro come traduttore: impossibile leggere una biografia pavesiana senza vedere menzionate le sue imprese titaniche, a partire dalla sua celebre versione di Moby Dick, pubblicata dalla casa editrice Frassinelli nel 1931. Meno note delle grandi traduzioni in prosa, anche perché prive di autonomia editoriale, sono le traduzioni poetiche da Edgar Lee Masters e da Walt Whitman. Gli epitaffi scelti dalla Spoon River Anthology e volti in italiano vanno infatti a corredare il saggio pubblicato su «La Cultura» nel 1931 e poi confluito, assieme ad altri due contributi su Lee Masters, nella raccolta postuma La letteratura americana e altri saggi. Le versioni whitmaniane risalgono a momenti diversi del lavoro e della vita di Pavese: le prime sono traduzioni “di servizio” che Pavese realizza all’epoca della tesi di laurea, dalla quale deriverà un saggio pubblicato ancora su «La Cultura» nel 1933, e che, anche in questo caso, andrà a fare parte di La letteratura americana e altri saggi col titolo Poesia di far poesia; le seconde fanno parte di una selezione di traduzioni poetiche (di cui sarà pubblicata solo I martiri di Wallabout) che prepara il lavoro sugli Specimen Days, pubblicato nel 1948 su «Poesia» col titolo di Naturismo ottocentesco.

Ci si propone dunque di analizzare i due percorsi di traduzione a cui si è accennato prendendo anche in considerazione una piccola selezione di esempi di versioni poetiche tratti dalla Spoon River Anthology e dalle Leaves of Grass.

Per il saggio su Lee Masters del 1931, Pavese sceglie e traduce undici epigrafi; se ne ripropone qui qualche estratto, a fronte dell’originale inglese. Questi esempi vorrebbero essere il più possibile rappresentativi del lavoro di traduzione poetica di Pavese; ai fini della trattazione sarà utile il confronto con altre traduzioni, in particolare con quella di Pivano pubblicata da Einaudi nel 1943, a cui Pavese ha contribuito in maniera significativa9. A questo proposito, gli studi di Iuri Moscardi suggeriscono l’idea di un Pavese «revisore invadente» (in Pavese 2021: 1322), o addirittura di un «lavoro a quattro mani» (in Pavese 2021: 1322). Sicuramente, le maggiori libertà e la pronunciata letterarietà delle versioni di Pivano segnano una differenza profonda rispetto alle traduzioni pavesiane del 1931, più letterali e aderenti al testo inglese.

Nel 1970, in un’intervista su Pavese e l’America, Fernanda Pivano afferma che «Nell’equilibrio generale di una traduzione quello che contava soprattutto per Pavese erano il ritmo e il tono. Il grande insegnamento che veniva da lui era l’umiltà, tipica del bravo traduttore, di fronte ad una pagina: l’umiltà di dimenticare il proprio “stile” per inserirsi nello stile dell’autore da tradurre e cercar di “rifarlo”». Questa descrizione di Pavese traduttore, fatta da Pivano soprattutto a proposito delle versioni di testi di narrativa, risulta assolutamente calzante anche per il Pavese traduttore di poesie: è impossibile non notare la «nuda aderenza alla lettera di Lee Masters, che tradisce poche preoccupazioni per la lingua d’arrivo» (Grasso e Trovato, in Pavese 2021: 1322). Pavese tende a non prendersi libertà rispetto all’originale e, anzi, pur di mantenersi vicino alla lingua di partenza, sembra talvolta quasi allontanarsi da quella d’arrivo.

Il primo esempio proposto è tratto dalla poesia Blind Jack (‘Jack il cieco’):

I had fiddled all day at the county fair.
But driving home “Butch” Weldy and Jack McGuire,
Who were roaring full, made me fiddle and fiddle
To the song of Susie Skinner, while whipping the horses
Till they ran away.
 
 
Avevo suonato tutto il giorno alla fiera
ma guidando a casa, Butch Weldy e Jack Mc-Guire
che erano bell’e sbronzi, mi fecero suonare e suonare
al canto di Susie Skinner, frustando i cavalli
finché quelli scapparono.
 
(Traduzione di Cesare Pavese)
 
 
Avevo strimpellato tutto il giorno alla fiera.
Ma «Butch» Weldy e Jack McGuire nel ritorno,
ubriachi fradici, vollero che ancora suonassi
Susie Skinner, frustando i cavalli,
finché questi ci presero la mano.
 
(Traduzione di Fernanda Pivano)

Risulta evidente fin da questo primo esempio l’attitudine traduttoria di Pavese: il registro si mantiene medio, come nell’originale; la sintassi è semplice, piana, lontana dalla struttura «un po’ pedante, molto grammaticale, sempre con qualche vaga traccia della concinnitas di Cicerone, con un certo gusto per la sonorità, per l’eleganza formale e così via» (Pivano 1970) dell’italiano. Per quanto riguarda le scelte lessicali, Pavese rimane estremamente vicino all’inglese, anche se la tendenza a conservare il ritmo della lingua di partenza lo costringe in qualche caso a generalizzare concetti espressi nell’originale con maggiore precisione: in Jack il cieco «I had fiddled» (v. 1) viene reso col più generico «avevo suonato», che ha il vantaggio di «rifare il ritmo» (Pivano 1970) dell’inglese, ma perde della specificità del verbo to fiddle, reso con maggiore precisione dal più lungo «avevo strimpellato» di Pivano e dall’«ho suonato il violino» della traduzione del 2018 a cura di Enrico Terrinoni. Ancora, come fanno notare Miryam Grasso e Maria Concetta Trovato (in Pavese 2021: 1322), Pavese rimane estremamente fedele all’originale, quasi tradendo la lingua d’arrivo, traducendo il «driving home» del secondo verso con «guidando a casa», scelta, questa, non riproposta da Pivano, che rende molto più liberamente l’espressione con la locuzione «nel ritorno».

Il secondo esempio è tratto dall’epigrafe di Francis Turner:

I could not run or play
In boyhood.
In manhood I could only sip the cup,
Not drink –
For scarlet-fever left my heart diseased.
 
 
Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo non potevo che centellinare,
non bere –
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
 
(Traduzione di Cesare Pavese)
 
 
Io non potevo correre né giocare
quand’ero ragazzo.
Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa,
non bere –
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
 
(Traduzione di Fernanda Pivano)

I due versi finali dell’epigrafe di Francis Turner, il malato di cuore della celebre canzone di De André, sono quelli che più di tutti colpiscono la giovane Fernanda Pivano (Grasso e Trovato, in Pavese 2021: 1320), che poco dopo la lettura dell’Anthology decide di intraprenderne la traduzione, di nascosto da Pavese, di cui temeva «l’affilata ironia» (Pivano 1964). Anche in Francis Turner Pavese mantiene la sua linea sobria e sostanzialmente fedele all’originale: contrariamente all’ex alunna, che sceglie di sciogliere «in boyhood» (v. 2) e «in manhood» (v. 3) con due proposizioni temporali («quand’ero ragazzo» e «quando fui uomo»), Pavese ne «sottolinea lo spessore semantico», con le apposizioni «da ragazzo» e «da uomo», lemmi, questi, fanno notare Grasso e Trovato (in Pavese 2021: 1322), fondamentali nella poetica di Pavese: basti ricordare che «il soggetto per eccellenza di Lavorare stanca» è proprio «il ragazzo nel pieno della sua formazione che scopre sé stesso e il mondo» (Villa 2022), lo stesso ragazzo che in Mito è costretto ad abbandonare l’estate e la giovinezza, «col morto sorriso dell’uomo che ha compreso» (Pavese 2020b: 113), che si è stoicamente rassegnato al suo destino fatale.

Ancora una volta, favorendo il ritmo della composizione, Pavese condensa il «sip the cup» del terzo verso (esemplificativo del ritmo scattante dell’inglese a cui si accenna in Pivano 1970) in un leggermente più ricercato centellinare, contrariamente a Pivano che, traducendo quasi parola per parola («sorseggiare alla coppa»), allunga molto la frase, dando la precedenza invece al lessico.

Come si è fatto per le traduzioni dalla Spoon River Anthology, si propongono anche per le traduzioni whitmaniane un paio di esempi. Sarà interessante poter confrontare, ove possibile, non solo il lavoro di Pavese con quello di un altro traduttore (in questo caso, si fa riferimento alle versioni di Luigi Gamberale del 1907, quelle su cui aveva studiato lo stesso Pavese) ma anche le traduzioni del Pavese della giovinezza con quelle del Pavese della maturità.

Sono ancora una volta le parole di Fernanda Pivano (1970) a dare il via all’analisi, offrendo un altro spunto interessante per comprendere meglio il Pavese traduttore e studioso di Walt Whitman: «Forse l’interesse di Pavese per Whitman è stato percettivo, è venuto più dalla percezione che dal ragionamento: forse ha capito soltanto più tardi, con dei ripensamenti, perché Whitman lo ha interessato». Queste parole, che in realtà sarebbero parte di una risposta che voleva far luce sulla scelta di Pavese di studiare Whitman in un momento piuttosto nebuloso per l’università in Italia (un momento in cui “America” poteva voler dire solo “antifascismo”), potrebbero essere rilette anche per osservare il diverso approccio del nostro nei due momenti della sua vita in cui si è dedicato alle traduzioni whitmaniane. Come l’interesse nei confronti del poeta americano, così anche l’approccio alle traduzioni nelle due diverse fasi avrebbe subito dei ripensamenti:

La traduzione di In Cabin’d Ships at Sea risale proprio a questa seconda fase: qui l’A. è attento alla lingua d’arrivo, ma non perde mai i contatti con la lingua di partenza, rimane aderente al testo inglese e solo in pochi casi si prende delle libertà rispetto all’originale. La versione di Pavese si allontana da quella di Gamberale fin dal titolo: conciso e fedele al ritmo dell’inglese il «Su chiuse navi in mare» di Pavese, più letterale e ciceroniano l’«Entro navi con cabine, in mare» di Gamberale. La linea tenuta nel titolo dai due traduttori sembra preludere all’attitudine di entrambi nei confronti di tutto il testo; Pavese, con il suo tono medio, preserva la freschezza dell’inglese, rimanendo più vicino alla lingua di partenza anche quando sembra distaccarsene maggiormente; Gamberale, al contrario, anche quando ricalca pedissequamente le strutture dell’inglese, si allontana dalla leggerezza della lingua, riavvicinandosi all’italiano «un po’ pedante, molto grammaticale» di cui parlava Pivano nella già citata intervista.

Fra i pochissimi testi affrontati da Pavese in entrambe le fasi traduttive, si è scelto qui di analizzare alcuni versi di Native Moments, un breve componimento tratto da Children of Adam, la sezione che, insieme a Calamus, tocca il discusso tema degli amori virili (secondo De Sélincourt, «la lode del sesso senza l’amore» la prima e «la lode dell’amore senza il sesso» la seconda). Questa «deliziosa piccola poesia» (Pavese 2020a: 57), estremamente apprezzata dal giovane Pavese (viene ricordata sia nella tesi di laurea, sia nel saggio del 1933), esprime «un desiderio cordiale di vita che è letterario ed è sentito sinceramente come tale I will be your poet» (Pavese 2020a: 58).

Dove il giovane Pavese puntava integralmente al testo d’origine, conservandone la lettera in modo funzionale allo sviluppo del suo discorso critico, il Pavese maturo, quello del triennio 1945-1948, offre una traduzione da poeta e scrittore: liberato dagli impacci di un’esitante misura, può essere più attento alla lingua d’arrivo senza perdere la messa a fuoco dello spirito del verso whitmaniano, del quale restituisce il vigore e la sapidità (Grasso e Trovato, in Pavese 2021: 1331).

Give me the drench of my passions, give me life coarse and rank,
To-day I go consort with Nature’s darlings, to-night too,
I am for those who believe in loose delights, I share the midnight orgies of young men,
I dance with the dancers and drink with the drinkers,
[…]
O you shunn’d persons, I at least do not shun you,
I come forthwith in your midst, I will be your poet,
I will be more to you than to any of the rest.
 
 
Datemi la feccia delle mie passioni, datemi la vita rozza e materiale,
oggi vado ad accomunarmi coi beniamini della Natura, e così stanotte,
sono per coloro che credono nelle gioie sfrenate, condivido le orge
notturne di giovani,
ballo con coloro che ballano e bevo con coloro che bevono,
[…]
O voi persone che tutti evitano, io almeno non vi evito,
io vengo senz’altro in mezzo a voi, io sarò il vostro poeta,
io sarò più a voi che non a qualunque degli altri.
 
(Traduzione del 1928-1933)
 
 
Datemi lo sgorgo delle passioni, datemi vita rozza e violenta,
Quest’oggi farò comunella coi prediletti della Natura, stanotte pure,
Sono con quelli che credono nei piaceri dissoluti, condivido orge
notturne di giovani,
Ballo coi ballerini, bevo coi bevitori,
[…]
O voi gente schivata, io almeno non vi schivo,
Vengo senz’altro in mezzo a voi, sarò il vostro poeta,
Sarò per voi di più che per qualsiasi altro.
 
(Traduzione del 1945-1948)

Le note alle traduzioni a cura di Grasso e Trovato (in Pavese 2021: 1330-1331) elencano in maniera piuttosto esaustiva le differenze che intercorrono fra le due versioni pavesiane di Native Moments e sottolineano la maggiore sicurezza e disinvoltura delle traduzioni mature, sia a livello lessicale, sia a livello morfosintattico. Anche solo scorrendo il testo distrattamente si percepisce la prima differenza, che riguarda le scelte di impaginazione (il giovane Whitman aveva lavorato anche come apprendista tipografo e quest’esperienza si riflette fisicamente nei suoi scritti): a livello visivo, le traduzioni della maturità ricordano maggiormente i testi originali, di cui ripropongono le maiuscole a inizio verso, cosa che invece non accade nelle traduzioni degli anni giovanili. Per quanto riguarda le scelte traduttologiche vere e proprie, la «feccia delle mie passioni» che traduceva il «drench of my passions» della prima versione, diventa il più vitale «sgorgo delle passioni» della seconda e, nello stesso verso, la coppia di aggettivi «coarse and rank», pur conservando rozza a tradurre il primo lemma, modifica la traduzione del secondo, trasformando materiale in violenta. Ancora, il «go consort» del quarto verso si avvicina ulteriormente alla lingua d’arrivo nella seconda traduzione, in cui il letterale «vado ad accomunarmi» della prima prova, che ricalca perfettamente l’inglese, diventa un meno artificioso «farò comunella», che scioglie il futuro perifrastico originale con un futuro semplice; anche «I am for those who believe», reso inizialmente con «sono per coloro che credono» acquisisce maggiore naturalezza diventando «Sono con quelli che credono» nella versione matura. L’eliminazione delle perifrasi «coloro che ballano» e «coloro che bevono» (che diventano ballerini e bevitori, riavvicinandosi agli originali dancers e drinkers del sesto verso) alleggerisce la pesantezza della prima versione, così come la scelta analoga di trasformare le «persone che tutti evitano» in «gente schivata» («shunn’d persons» nell’originale). Questa «gente schivata» permette di scorgere un’identità fra lo Whitman di Children of Adam, che si bea della compagnia dei relitti della società di cui si proclama poeta («I will be your poet», annuncia alla fine del penultimo verso di Native Moments) e il Pavese del primo Lavorare Stanca, che si perde in una Torino popolata da prostitute, ubriachi e ballerine; ed in questi primi anni Trenta è proprio la ballerina («la ballerina di qualche “balera” torinese, naturalmente» (Guglieminetti, in Pavese 2020b: XXXVIII)) «l’autentica proiezione del poeta, sotto il segno più lieve e consolante della danza» (Guglielminetti, in Pavese 2020b: XXXVIII). A concludere l’elenco di differenze fra le due traduzioni pavesiane, notevole l’«I will be more to you than to any of the rest» che passa dal pedissequo «io sarò più a voi che non a qualunque degli altri» (in cui addirittura si conserva la correlazione dativa to/a) ad un più spontaneo «Sarò per voi di più che per qualsiasi altro».

Conclusione

Non è possibile separare l’esercizio poetico da quello di Pavese americanista e basterebbe pensare a certe situazioni che Pavese recupera non nella piatta imitazione di temi accolti dalla letteratura americana, bensì nel ritrovare in una dimensione americana i propri temi, le proprie situazioni (Venturi 1975).

Queste poche parole di Gianni Venturi condensano quello che è stato l’obiettivo, si spera raggiunto, di questo lavoro: offrire una panoramica dell’opera poetica di Pavese sotto la lente della poesia americana, studiata e interiorizzata dall’autore al punto da farla sua e renderla parte della sua stessa produzione poetica. Senza l’americanista, il saggista e il traduttore, probabilmente non sarebbe esistito il poeta che conosciamo («mentre a un letterato non occorre essere altro che letterato, un poeta dev’esser anche letterato (cioè colto, secondo il suo tempo) e dominare con mano ferma questo groviglio di abitudini e compiacenze che è la sua letteratura» (Pavese 1990: 300), e, viceversa, senza il poeta, anche il traduttore non sarebbe lo stesso, come non mancava di far notare Pivano nella già citata intervista del 1970:

Ma prima di essere un traduttore Pavese era un poeta e nonostante tutta la sua umiltà e la sua attenzione continuava a restare un poeta; e naturalmente un poeta per quanto faccia non riuscirà mai a tradurre una pagina senza trasmetterle una certa carica di poesia, probabilmente succederebbe così anche se traducesse l’orario dei treni.

Per concludere la raccolta La letteratura americana e altri saggi, venne scelto uno studio, mai pubblicato in vita, dal titolo L’arte di maturare, in cui l’autore sottolineava l’importanza di saper maturare, di uscire dalla «nostra individuale prima età» (Pavese 1990: 329), riconoscendo l’importanza delle culture altre dalla nostra. Significative sono le sue parole in merito alla possibilità di creare una cultura che le comprenda tutte:

Ma adesso che ci rendiamo conto della contemporanea molteplicità delle culture, con ciò stesso possiamo dissociare la nostra vita spirituale dalla decadenza della singola cultura toccataci. Il semplice fatto che ne possiamo mettere a confronto e far parlare almeno due – l’americana e la romantico-europea – chiarisce che siamo relativamente liberi di fronte a entrambe e che insomma stiamo lavorando a costruirne una comprensiva, più complessa, di cui le due in questione non saranno che componenti provinciali (Pavese 1990: 332).

Di certo Pavese è riuscito «a farsi il più colto dei contemporanei» (Pavese 1990: 303), a maturare e a compiere il suo destino di poeta, adempiendo la sua «lucida e furente volontà di chiarezza» (Pavese1990: 302) e rendendo la sua poesia «un bene comune in cui la generale cultura del suo tempo può riconoscersi» (Pavese 1990: 303).

Bibliografia

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Capasa Valerio (2002), Pavese di fronte agli Americani: le cose, i simboli, gli abissi, «Quaderni del ’900», 2, p. 10-34.

Masters Edgar Lee (1967), Antologia di Spoon River, a cura di Pivano F., Torino, Einaudi.

— (2018), Antologia di Spoon River, a cura di Terrinoni E., Milano, Universale Economica Feltrinelli.

Mondo Lorenzo (2011), Il mestiere di poeta, «Cuadernos de Filología Italiana», Volumen Extraordinario, p. 257-267.

— (2015), «Fra Gozzano e Whitman», In: Mondo L., Questi piemontesi: profili di scrittori italiani tra Otto e Novecento, Firenze, Leo S. Olschki, p. 80-96).

— (2021), Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Milano, Guanda.

Mutterle Anco Marzio (1998), Rileggendo Pavese, «Studi Novecenteschi», 25, 56, p. 179-204.

Pavese Cesare (1966), Lettere 1924-1944, a cura di Calvino I. e Mondo L., Torino, Einaudi.

— (1990), La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi.

— (2020a), Interpretazione della poesia di Walt Whitman, a cura di Magrelli V., Milano-Udine, Mimesis.

— (2020b), Le poesie, Torino, Einaudi.

— (2021), L’opera poetica. Testi editi, inediti e traduzioni, a cura di Sichera A. e Di Silvestro A., Milano, Mondadori.

Pivano Fernanda (1970), La scelta dell’altra America. Conversazione con Fernanda Pivano, «I Quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri. Pavese, cultura e politica», Asti, Istituto Nuovi Incontri, p. 5-15.

Remigi Gabriella (2007), Pavese lettore di Edgar Lee Masters, «Il Lettore di Provincia. Testi, ricerche, critica», Ravenna, Angelo Longo editore, 128, p. 19-29.

— (2012), Cesare Pavese e la letteratura americana. Una «splendida monotonia», Firenze, Leo S. Olschki, p. 15-46 e p. 89-102.

Savoca Giuseppe e Sichera Antonio (1997), Concordanza delle poesie di Cesare Pavese (Concordanza, Liste di frequenza, Indici), Firenze, Leo S. Olschki.

Venturi Gianni (1975), Cesare Pavese, «Il Castoro», Firenze, La Nuova Italia, 25.

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Whitman Walt (1907), Foglie di erba: con le due aggiunte e gli «Echi della vecchiaia» dell’edizione del 1900, a cura di Gamberale L., Napoli, Remo Sandron Editore.

— (2013), Leaves of Grass, The Electronic Classic Series, University of Pennsylvania.

— (2016), Foglie d’erba, a cura di Giachino E., Torino, Einaudi.

Note

  1. Traduzione di Terrinoni E.: «Do the boys and girls still go to Siever’s / For cider after school, in late September? / Or gather hazel nuts among the thickets / On Aaron Hatfield’s farm when the frost begins?» (Masters 2018).
  2. Traduzione di Terrinoni E.: «On spring days I tramped through the country / To get the feeling, which I sometimes lost, / That I was not a separate thing from the earth. / I used to lose myself, as if in sleep, / By lying with eyes half-open in the woods. / Sometimes I talked with animals – even toads and snakes – / Anything that had a eye to look into […] I never knew whether I was a part of the earth / With flowers growing in me, or whether I walked – / now I know» (Masters 2018).
  3. Il soprannome deriva da una biografia whitmaniana, The Magnificent Idler, appunto, di Cameron Rogers, a cui Pavese accenna nella sua tesi di laurea.
  4. Giachino E. traduce «Andrò sulla scarpata presso il bosco, per smascherarmi, per denudarmi / Sono pazzo dal desiderio di venirne in contatto» (Whitman 2016).
  5. Giachino E. traduce: «Quelle dell’aria aperta, volgari, illuminate dal sole, fresche, nutrienti» (Whitman 2016).
  6. Giachino E. traduce: «Ciascun uomo per sé, ciascuna donna per sé sono la parola del passato e del presente, e la vera parola dell’immortalità; / Nessuno può acquistare per un altro – nessuno, / Nessuno può crescere per un altro – nessuno» (Whitman 2016).
  7. Giachino E. traduce: «Divino amico, camerata perfetto, / Tu che contento aspetti, celato ma sicuro / Sii tu il mio Dio» (Whitman 2016).
  8. Giachino E. traduce: «L’anima, / In sempiterno, – più a lungo di quanto la terra rimanga solida e bruna – più a lungo del flusso e riflusso delle onde. / Comporrò i poemi della materia, persuaso che saranno i poemi più spirituali, / Comporrò i poemi del mio corpo e della mia mortalità, / Persuaso di comporre così i poemi della mia anima e dell’immortalità» (Whitman 2016).
  9. All’epoca, Pavese lavorava per la casa editrice Einaudi come «revisoredei manoscritti e delle bozze di traduzioni altrui dall’inglese» (Pavese 1966: 537).
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