Adamastor, fra Mozambico e Sudafrica: due rivisitazioni del mito secondo Luís Carlos Patraquim e Roy Campbell

Adamastor è uno dei personaggi simbolo de Os Lusíadas, che ha affascinato lettori e studiosi di ogni epoca grazie alla caratterizzazione tratteggiata da Camões: dalla penna del poeta portoghese nasce infatti una figura sfaccettata, impossibile da definire in maniera univoca. Se il gigante continua a sopravvivere nell’immaginario collettivo soprattutto come un incubo spaventoso, che ha popolato le menti di navigatori ed esploratori, sarebbe tuttavia sbagliato considerarlo alla stregua di una creatura mostruosa, poiché Adamastor è anche la personificazione del Capo delle Tempeste, un profeta di sciagure1, un innamorato non corrisposto e uno spirito preposto al controllo delle acque. Il primo a tentare di sciogliere l’enigma relativo all’identità del gigante è Vasco da Gama, che gli si rivolge con l’interrogativo «Quem és tu?» (Camões 2000: canto V, ottava 49, verso 3), ma l’unica strategia alla quale Adamastor può ricorrere per definire la propria natura è quella di raccontare la sua storia, la vicenda di come uno «dos filhos aspérrimos da Terra» (Camões 2000: canto V, ottava 51, verso 1) sia stato tramutato in «aquele oculto e grande Cabo/A quem chamais vós outros Tormentório» (Camões 2000: canto V, ottava 50, versi 1-2) per amore della ninfa Teti.

A livello strutturale l’apparizione di Adamastor si colloca in un punto focale, circa a metà dell’opera e arrivando pertanto a costituirne il fulcro. Il quinto canto svolge inoltre la funzione di legare passato e futuro, in quanto chiusura del racconto di Gama al re del Malindi e preparazione per il lettore alle vicende che l’ammiraglio portoghese deve ancora narrare.

La vicenda del gigante viene inoltre rivestita di grande importanza anche per il fatto di racchiudere tre dei motivi portanti de Os Lusíadas, ovvero «a ousadia épica, o sofrimento trágico e o desengano lírico» (Castro 2007: 183). La prima è rappresentata dalla capacità di realizzazione dell’uomo che grazie alla sua intelligenza trionfa sulle forze della natura, personificate da Adamastor; la seconda invece viene introdotta in primo luogo dalla narrazione della fine crudele dei coniugi Sepúlveda, che nel loro ultimo abbraccio suscitano la commozione del gigante e rievocano la sua storia crudele con Teti, nel cui abbraccio Adamastor trova invece l’inganno. Adamastor conserva pertanto emozioni e caratteristiche umane, che hanno portato molti critici a vedere nel gigante una proiezione di Camões e dei tormenti amorosi del poeta, che vengono spesso descritti nella sua produzione poetica proprio attraverso i toni del «desengano lírico».

Una figura come quella di Adamastor non poteva che «authorise bewildering conflicts of interpretation» (Lipking 1996: 217), con correnti interpretative che si sono dipanate a partire dai vari aspetti del personaggio. In tal senso, uno degli studi più interessanti è quello compiuto dall’accademico David Quint, che nel saggio Voices of Resistance: The Epic Curse and Camões’s Adamastor (1989) riconfigura Adamastor come simbolo dell’Africa e dei suoi abitanti. A supporto delle sue teorie, lo studioso mette in luce sia l’attribuzione ad Adamastor di alcune caratteristiche tipiche degli africani, come «a cor terrena» (Camões 2000: canto V, ottava 39, verso 6) e «crespos os cabelos» (Camões 2000: supra), sia la vicinanza della sua apparizione con l’episodio dell’incontro fra gli uomini di Gama e un indigeno, col quale i portoghesi non riescono a instaurare una comunicazione a causa delle barriere linguistiche.

Alla luce di queste considerazioni è possibile pertanto inquadrare Adamastor come “altro”, che malgrado il suo status riesce a instaurare un discorso con il colonizzatore: in virtù del dono della parola conferitogli da Camões, il gigante viene introdotto al lettore come una presenza di spicco all’interno del poema, alla pari dei suoi protagonisti.

Un personaggio talmente sfaccettato e affascinante non poteva che stimolare la fantasia di altri scrittori, grazie ai quali il mito di Adamastor ha conosciuto nuove rappresentazioni. Ai fini di questo lavoro ho scelto di soffermarmi in particolar modo sui componimenti di Luís Carlos Patraquim e Roy Campbell, autori provenienti da due contesti geografico-letterari apparentemente molto distanti fra loro. Da un lato troviamo infatti il Mozambico, in cui quel processo di «esquecimento da carga demasiado pesada que o processo colonial arrastou consigo» (Leite 2003: 22), innescatosi a seguito dell’indipendenza, ha spinto gli artisti a cercare un proprio percorso lontano dall’eredità culturale e letteraria del Portogallo; dall’altro il Sudafrica, dove la figura di Adamastor attecchisce nella letteratura del paese a partire dal diciannovesimo secolo, per poi riconfigurarsi come mito «at the root of all subsequent white semiology invented to cope with the African experience» (Gray 1979: 18), in un legame col territorio che lo fa assurgere al ruolo di primo mitico abitante del Sudafrica.

Patraquim e Campbell sono pertanto accomunati dal fatto di aver risvegliato l’interesse per la figura di Adamastor, alla quale hanno conferito nuova linfa vitale. Inoltre, per quanto le rispettive rappresentazioni del mito risultino differenti l’una dall’altra, entrambi gli autori scelgono di dipingere il gigante come un nucleo di alterità, raffigurato in Metamorfose di Patraquim come incarnazione dell’impero portoghese in un Mozambico alla vigilia dell’indipendenza, e in Rounding the Cape di Campbell come simbolo del territorio sudafricano, oltre che dei suoi abitanti.

«Mas Agora morto Adamastor»: il crollo di un impero e la Metamorfose del Mozambico visti da Luís Carlos Patraquim

Luís Carlos Patraquim (1953) è senza dubbio uno dei poeti più rappresentativi all’interna del panorama letterario mozambicano: vincitore del Prémio Nacional de Poesia de Moçambique nel 1995, Patraquim viene considerato il degno erede di José Craveirinha per lo stile altamente metaforico e per una scrittura «alimentada por uma força pictórica e simbólica e por uma rítmica que faz dos textos, espaços de mediação reflexiva e onírica, em que o sentido se vislumbra e anuncia, refeito num movimento de recorrências de leitura» (Leite 2003: 128).

Nato a Maputo da una famiglia portoghese, Patraquim esordisce con la raccolta Monção nel 1980, nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza del paese2. È in questo clima di ritrovata libertà che nasce una nuova generazione di artisti, all’interno della quale Patraquim si impone con una produzione che comprende non soltanto poesie, ma anche pièce teatrali, crónicas e romanzi. Trasferitosi in Portogallo nella seconda metà degli anni ’80, attualmente collabora con la stampa mozambicana e portoghese, scrive sceneggiature ed è coordinatore della rivista «Lusografias».

Il poeta mozambicano menziona Adamastor nella poesia intitolata Metamorfose, contenuta nella sua opera d’esordio Monção. Prima di passare all’analisi dettagliata del componimento che sarà oggetto del presente articolo, vorrei partire proprio dal titolo di questa raccolta patraquiniana: la parola monção viene infatti rivestita di diverse valenze dall’autore, poiché racchiude in sé quella volontà di cambiamento che si era fatta strada sia nella cultura sia nella società mozambicana, in seguito all’indipendenza. Il monsone, inoltre, è da sempre considerato il vento della navigazione e questa caratteristica lo lega in maniera indissolubile a Camões e a due viaggi in particolare, quello del poeta dalla Ilha de Moçambique a Lisbona, dove trascorrerà gli ultimi anni della sua esistenza, e quello di Vasco da Gama, a cui il monsone consentirà di doppiare il Capo di Buona Speranza. Ed è proprio questo episodio che finisce col riportarci alla figura di Adamastor, che diventa uno dei protagonisti di Metamorfose. Il titolo del componimento è ancora una volta polisemantico e se il referente immediato della metamorfosi in questione è il Mozambico, paese alla vigilia dell’indipendenza, non dobbiamo dimenticare che il gigante è egli stesso protagonista di una trasformazione. Prima di addentrarmi oltre nell’analisi, riporto il testo della poesia:

quando o medo puxava lustro à cidade
eu era pequeno
vê lá que nem casaco tinha
nem sentimento do mundo grave
ou lido Carlos Drummond de Andrade

os jaracandás explodiam na alegria secreta de ser vagens
e flores vermelhas
nem lustro de cera havia
para que o soubesse
na madeira da infância
sobre a casa

a Mãe não era ainda mulher
e depois ficou Mãe
e a mulher é que a vagem e a flor da terra
então percebi a cor
e a metáfora

mas agora morto Adamastor
tu viste-lhe o escorbuto e cantaste a madrugada
das mambas cuspideiras nos trilhos do mato
falemos do casaco e do medo
tamborilando o som e a fala sobre as planícies verdes
e as espigas de bronze
as rótulas já não tremulam não e a sete de Março
chama-se Junho desde um dia de há muito tempo com meia dúzia
de satanhocos moçambicanos todos poetas gizando
a natureza e o chão no parnaso das balas
falemos da madrugada e ao entardecer
porque a moncão chegou
e o último insone povoa a noite de pensamentos grávidos
num silêncio de rãs a tisana do desejo

enquanto os tocadores de viola com que latas de rícino e amendoim
percutem outros tendões da memória
e concreta
a música é o brinquedo
a roda
e o sonho
das crianças que olham os casacos e riem
na despudorada inocência deste clarão matinal
que tu
clandestinamente plantaste
AOS GRITOS

L’interlocutore a cui si rivolge il poeta è il connazionale José Craveirinha, considerato il Camões mozambicano per via del suo ruolo seminale nella costruzione della letteratura del paese. La scelta di Craveirinha non è pertanto casuale, in quanto nella sua opera egli affronta spesso il tema delle ingiustizie e delle violenze che hanno macchiato il regime coloniale. Il tempo che domina la prima parte del componimento è l’imperfetto, un tempo in cui «o medo puxava lustro à cidade»: questo verso iniziale costituisce un riferimento esplicito alla poesia di Craveirinha Lustro contenuta nella raccolta Cela 1 (1980)3, la cui funzione è quella di portarci in una fase della storia mozambicana caratterizzata dalla censura di un regime dispotico ed oppressivo. Gli scrittori sono costretti a far circolare le proprie opere in clandestinità, pagando a volte con la prigionia o l’esilio le loro posizioni contro la dittatura, come appunto capitò a Craveirinha, mentre gli abitanti non hanno accesso alle opere di autori stranieri. A questo proposito Patraquim porta l’esempio di Carlos Drummond de Andrade, poeta brasiliano che all’epoca del salazarismo non avrebbe potuto leggere.

Patraquim mostra, quindi, fin dalla prima strofa del componimento, una delle cifre stilistiche che attraversano la sua intera produzione, ovvero la capacità di unire in maniera fluida molteplici influenze letterarie: Ana Mafalda Leite individua infatti «duas fortes redes de `correspondências´, de afinidades electivas, uma fundadora, aquela em que são criados os seus precursores, no espaço literário moçambicano […], e uma outra rede de correspondências, integradora, que recolhe, centrifugamente, escritas oriundas de diversas literaturas» (Leite 2003: 128).

In Metamorfose il poeta riesce a legare la prima generazione poetica mozambicana (incarnata appunto da Craveirinha) alla seconda, in una prospettiva che parte dalle radici della letteratura portoghese con Camões fino ad abbracciare altri autori lusofoni come Drummond de Andrade.

In un tale clima di oppressione e paura, l’io poetico muove i primi passi in un «mundo grave», di cui non ha ancora coscienza: nell’innocenza della sua infanzia, l’immagine del «casaco» finisce col diventare l’epitome di un colonialismo che ai suoi occhi di bambino appare oscuro e minaccioso. In questo quadro tuttavia i segni di una rinascita del paese sono già presenti, con i «jaracandá» e la «Mãe» che attendono di poter dare origine a una nuova vita. Entrambi questi simboli si ricollegano a una delle tematiche principali di Monção, ovvero quella della rinascita e della fertilità.

Sarà con la rivoluzione e l’avvento dell’indipendenza che il lettore verrà riportato al piano del presente: arriva il monsone carico di cambiamenti e assieme a esso giunge la morte di Adamastor, emblema di un colonialismo ormai inutile la cui scomparsa diventa pertanto necessaria. Il Mozambico deve passare oltre in modo da trovare nuovi orizzonti, così come Gama e il suo equipaggio dovettero doppiare il Capo e fronteggiare la spettrale presenza del gigante, al fine di raggiungere l’India. Adamastor si fa quindi simbolo del Portogallo e delle sue conquiste oltremarine, portatrici di sofferenze. Del resto Patraquim si è sempre dimostrato molto critico nei confronti dell’impresa coloniale lusitana, i cui frutti secondo lui non portarono alla creazione di un vero impero (come quello inglese o francese), bensì a una assurda «política de povoamento» (Laban 1988: 927).

Il gigante quindi viene a rappresentare la letteratura portoghese stessa per antonomasia, oltre alla lusofonia. È grazie alla sua scomparsa che il poeta finalmente scopre «a cor e a metáfora», l’universo poetico si apre davanti a lui mentre la donna e la terra riprendono a essere fertili.

Tuttavia l’indipendenza dal Portogallo non deve avvenire soltanto su un piano politico, ma anche su quello letterario, ed è qui che Craveirinha entra in gioco piantando il seme della nuova letteratura mozambicana che minerà un impero marcio fino alle fondamenta, malato di scorbuto. La menzione a questa malattia, che ha mietuto per secoli le sue vittime fra marinai ed esploratori, costituisce un ulteriore riferimento al quinto canto de Os Lusíadas dato che nelle ottave 81 e 82 Camões fornisce una breve descrizione di questa «doença crua e feia» (Camões 2000: canto V, ottava 81, verso 1). Ad aiutare Craveirinha in questo compito sono tutti i poeti mozambicani, che, oltre a combattere, hanno contribuito a plasmare un nuovo linguaggio, quel linguaggio che sarà il veicolo di espressione di un Mozambico rinato.

È proprio nel periodo in cui Patraquim scrive che si comincia a riflettere sulle sofferenze della colonizzazione e a esorcizzarle; per questo, diventa ancora più importante confrontarsi con l’eredità del periodo pre-indipendenza, parlare «dos casacos e do medo» in modo da poter riscoprire un’identità propria sia a livello territoriale che letterario. A liberarsi dalle opprimenti catene del regime sono anche le emozioni; finalmente è giunto il tempo di cantare il desiderio, i sogni, l’immaginazione, e questi sono, infatti, alcuni dei temi della poesia post-indipendenza: da quel seme piantato «clandestinamente» da Craveirinha, la voce dei poeti si eleva fino alla conclusione del componimento, che si chiude in un grido liberatorio4. Adamastor muore e proprio per questo loro devono continuare a raccontare anche in mezzo al “parnaso das balas”: la parola infatti è forse l’arma più potente ed è grazie ad essa che Adamastor, gigantesco simbolo di un impero, crolla.

La rappresentazione che Patraquim tratteggia di Adamastor è dunque ben diversa da quella camoniana, dato che nella visione del grande poeta portoghese il gigante veniva collocato agli antipodi del mondo civilizzato, non soltanto dal punto di vista geografico: per quanto il gigante sia capace di provare sentimenti umani, la sua caratterizzazione lo colloca nella categoria del mostruoso e dell’ignoto, pertanto in netta contrapposizione col Portogallo e i valori incarnati dai suoi eroi. Nella poesia dell’autore mozambicano Adamastor subisce un’ulteriore metamorfosi, come si evince dal titolo, una trasformazione che lo porta a perdere i tratti mostruosi che caratterizzano le sue sembianze per diventare una silenziosa incarnazione del Portogallo, della sua letteratura e soprattutto del suo passato di conquiste oltremarine, delle cui tragiche conseguenze il gigante era già stato profeta.

«All that I have hated or adored»: la figura di Adamastor in Rounding the Cape di Roy Campbell

Roy Campbell (1901-1957) nasce nella colonia sudafricana del Natal, da una famiglia di origini inglesi e scozzesi. È tuttavia in Europa che il poeta trascorre la maggior parte della sua esistenza, fra l’Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo: queste peregrinazioni riflettono un percorso artistico sfaccettato, che soltanto un autore dalle molte anime come Campbell poteva compiere. Con una produzione che comprende raccolte poetiche, due autobiografie e traduzioni di alcuni fra i più importanti scrittori europei, Campbell è stato il primo poeta sudafricano a ottenere la notorietà internazionale e «a prominent and culturally revealing English-language writer of his time from South Africa» (Crewe 1997: 27). Tuttavia, malgrado il valore e la qualità della sua opera, si tratta di un autore la cui fortuna critica in vita è stata alterna e che a tutt’oggi merita di essere riscoperto.

Nel 1926 Campbell ha occasione di leggere Os Lusíadas e a colpire in particolar modo la sua immaginazione è «that wonderful passage about Rounding the Cape» (Campbell 1951: 1974), uno dei più celebri dell’intero poema anche in virtù dell’apparizione di Adamastor. È proprio attraverso questo personaggio che, secondo Campbell, il Sudafrica avrebbe fatto la sua comparsa nella letteratura europea, in un mirabile esempio di invenzione letteraria che renderebbe Camões «the greatest of all South African poets» (Campbell 1951: 1974).

Nello stesso anno il poeta compone Rounding the Cape, quando ormai si appresta a lasciare in maniera definitiva la sua terra natale: diverse sono le circostanze che hanno dettato questa scelta, dal fallimento della rivista «Voorslag», alla quale aveva lavorato assieme al connazionale William Plomer, alla morte del padre. In questo periodo tormentato nasce per l’appunto Rounding the Cape, una poesia «inspired by the last view of the stark coastal mountains of the Cape Peninsula» (Alexander 1982: 74), che condensa i complessi sentimenti dell’autore nei confronti della patria e del suo popolo, un malinconico canto d’addio che suggella un esilio tanto volontario quanto necessario. Al gigante, Campbell intitola inoltre la sua opera d’esordio Adamastor, pubblicata nel 1930, all’interno della quale Rounding the Cape viene posta a chiusura della sezione denominata Early Poems. Prima di analizzarne il contenuto, riporto il testo della poesia:

The low sun whitens on the flying squalls,
Against the cliffs the long grey surge is rolled
Where Adamastor from his marble halls
Threatens the sons of Lusus as of old.

Faint on the glare uptowers the dauntless form,
Into whose shade abysmal as we draw,
Down on our decks, from far above the storm,
Grin the stark ridges of his broken jaw.

Across his back, unheeded, we have broken
Whole forests: heedless of the blood we’ve spilled,
In thunder still his prophecies are spoken,
In silence, by the centuries, fulfilled.

Farewell, terrific shade! though I go free
Still of the powers of darkness art thou Lord:
I watch the phantom sinking in the sea
Of all that I have hated or adored.

The prow glides smoothly on through seas quiescent:
But where the last point sinks into the deep,
The land lies dark beneath the rising crescent,
And Night, the Negro, murmurs in his sleep.

A una prima lettura potremmo affermare che Rounding the Cape per il poeta costituisca un «valedictory gesture to his homeland» (Cronin 1984: 74); tuttavia, contemplare il paesaggio del Sudafrica nella sua interezza lo spinge anche a meditare su come esso sia stato alterato sia dalle esplorazioni, sia dagli insediamenti che si sono succeduti nel corso della storia. Se Camões aveva quindi trasformato in epica un passaggio cruciale nella storia delle scoperte marittime, Campbell utilizza a sua volta la poesia per riflettere sulle conseguenze di tali scoperte, ovvero sulle vicende del colonialismo.

Malgrado Campbell aneli alla bellezza della letteratura classica, il suo approccio suggerisce come non sia più possibile raccontare il contatto con un nuovo territorio attraverso i termini dell’epica, cosicché la gloria delle scoperte cede il posto agli orrori della colonizzazione: le foreste vengono distrutte e il sangue versato, mentre i colonizzatori impongono in modo «heedless» il “peso” della loro civiltà sulla “schiena” di Adamastor. Di fronte a queste violenze, come si pone l’io lirico, nel quale possiamo identificare lo stesso Campbell? La sua prospettiva sembra in un primo momento convergere con quella dei colonizzatori, rispetto ai quali il «we» del primo verso della terza stanza implica un avvicinamento, ed è come se il poeta stesso prendesse parte al massacro.

Soltanto quando l’imbarcazione si allontana l’io lirico riesce a ritrovare la propria individualità, distante dalla terra del Capo e da Adamastor, le cui sembianze assumono contorni sempre meno netti per trasfigurarsi infine in una «terrific shade» e in un «phantom». Tuttavia, la sua presenza rimane minacciosa, poiché, come dichiara il poeta in riferimento all’ombra del gigante, «Still of the powers of darkness art thou Lord». I referenti di quest’oscurità sono molteplici, a partire da un’Africa percepita come una terra oscura, come quel “cuore di tenebra” che, in ottica anticoloniale, aveva già colpito l’immaginazione di Joseph Conrad. Significativamente, come per i personaggi del celebre romanzo conradiano, le tenebre sono anche quelle che gravano sull’animo del poeta, che deve costantemente lottare con i sentimenti contrastanti nutriti per la patria, epitome di «all that I have hated or adored».

La quinta stanza conclude la poesia con un’analoga nota disforica, ovvero un’immagine destabilizzante che spezza la tranquillità del viaggio: mentre l’imbarcazione «glides smoothly on through seas quiescent», dalla terra a malapena illuminata dalla luna si ode il mormorio del «Negro».

Riflettendo su cosa rappresenti Adamastor per Campbell, si può affermare che, a un primo livello, esso coincida con il Sudafrica, il cui “capo” più estremo si erge ancora in mezzo all’oceano a distanza di secoli dall’epopea camoniana.

Il legame con Adamastor si fa però ancora più profondo nella misura in cui Campbell si identifica col gigante stesso, una creatura isolata dalla sua stessa razza e costretta all’immobilità, condizione sempre temuta dal poeta e che egli ha cercato di scongiurare attraverso numerose peregrinazioni, in una costante ricerca delle proprie radici spirituali e culturali. Intrappolato in una terra dove nessuno ascolta la sua poesia, l’artista sudafricano si sente come l’albatross di Baudelaire, umiliato e privato delle sue ali5.

Inoltre la figura di Adamastor viene investita di ulteriori valenze da Campbell, che la rimodella al fine di attuare una decostruzione del colonial discourse, intensificando così il legame con l’opera di Camões, in cui, al di là dell’esaltazione della gesta lusitane, è possibile riscontrare alcuni segni di critica al sistema imperiale: oltre alle sciagure profetizzate da Adamastor, si rivelano significativi a questo proposito gli episodi del velho do restelo all’inizio del quarto canto e le allusioni alla corruzione che i portoghesi porteranno in Oriente, contenute nel decimo.

Tuttavia la prospettiva di Campbell appare fluttuante, e questo emerge già nel modo in cui l’apparente simmetria del componimento è in effetti spezzata da delle discontinuità, le più importanti delle quali riguardano appunto il soggetto poetico, che passa dal «we» all’«I» della penultima stanza. Queste scissioni lasciano intravedere un percorso in cui Campbell si identifica in primo luogo coi colonizzatori, dei quali rivive le crudeli gesta. È interessante però notare come la sua prospettiva non escluda un legame empatico, che lo porta a descrivere anche le sofferenze di cui gli invasori saranno vittime. Rei di aver profanato il mare, i navigatori periranno proprio a causa di esso ed è la voce di Adamastor ad annunciare «in thunder» il loro destino, che si compirà tra il fragore delle tempeste e terminerà «in silence».

L’accademico sudafricano Michael Chapman osserva giustamente che «Campbell’s point, as reinforced by his other writings of the time, is that the colonists are clearly the exploiters, heedless of Africa’s blood; moreover that Adamastor’s prophecies of endless strife for the European invaders have perfect legitimacy» (Chapman 1986: 83). Tuttavia, i conflitti legati all’espansione e alla conquista coloniale emergono in maniera problematica in Campbell, che, in quanto sudafricano di origine inglese, si trova a vivere una frattura ideologica: fra i suoi antenati figurano infatti alcuni dei settlers della colonia del Natal ed è come se, in quelle foreste devastate e in quel sangue versato, egli rivedesse le loro imprese, arrivando a sentirsene partecipe poiché nel suo sangue scorre pur sempre la “linfa” della colonizzazione. Il poeta ha spesso denunciato le condizioni di sfruttamento in cui era costretta a vivere la popolazione di colore e la conseguente istituzionalizzazione della segregazione razziale, e non riesce a dimenticare come la sua famiglia abbia fatto fortuna grazie al lavoro di Zulu poco pagati e braccianti provenienti dall’India6.

Malgrado Campbell sia consapevole di ciò, nella sua opinione i non-white non sono in grado di divenire parte integrante di «a shared discourse of South Africa» (Crewe 1997: 46); sarebbe cioè possibile vivere con loro, ma non all’insegna di una totale integrazione. Pur comprendendo le sofferenze di questi gruppi etnici, Campbell è ben cosciente di come non siano sempre stati collocabili nel ruolo di pure vittime7. Adamastor stesso, del resto, incarna questo binomio vittima-carnefice poiché, dai suoi «marble halls», diventerà artefice di disgrazie; la sua è cioè una figura apparentemente passiva che si rivela però carica di poteri oscuri.

Relativamente a Rounding the Cape, mi sembra qui doveroso soffermarmi su un elemento che non ho ancora preso in considerazione, ovvero la figura del colonizzato, dell’“Altro” che si profila come protagonista dell’ultimo verso del componimento: la chiusura della poesia recita infatti «And Night, the Negro murmurs in his sleep», offrendo un’immagine sinistramente premonitrice in cui l’indigeno sussurra semi-cosciente nell’oscurità più completa, oscurità alla quale egli viene accostato per giustapposizione. Attraverso questo riferimento a un mormorio latente, Campbell sembra alludere a una futura ribellione della razza nera, che si consumerà anche come espressione delle profezie di Adamastor.

A questo punto è lecito porsi degli interrogativi su come Campbell avrebbe accolto questo “risveglio”, poiché la sua è una prospettiva complessa, che ha spinto alcuni critici a inquadrarlo nella cornice epistemica dello scrittore coloniale8, mentre, secondo Michael Chapman, sarebbe più corretto parlare di «irresolvable tensions in Campbell’s experience at the time» (Chapman 1986: 82). Il poeta è certamente consapevole del fatto che i non-white si ribelleranno e lascia trapelare una sensazione di paura, conscio delle enormi difficoltà che i suoi connazionali dovranno affrontare per gestire questo cambiamento rivoluzionario.

La decisione di Campbell di abbandonare il paese può essere interpretata quindi come una fuga? Egli accetta di essere parte del processo coloniale o «does its invocation of Camões’s allegorical mode in fact fend off culpability»? (Van Wyk Smith 2012: 124) Vorrei ricordare che la scelta dell’autore è stata oltremodo sofferta, in quanto egli sentiva di non potersi più esprimere come poeta in una patria che non lo apprezzava. Attraverso i suoi scritti egli pare lanciare degli avvertimenti ai connazionali, al fine di mettere in guardia il «White South Africa»9 dalle conseguenze di una politica costruita sullo sfruttamento sistematico e la segregazione. Se Camões canta le gesta lusitane alle soglie del crepuscolo della storia portoghese, Campbell può essere considerato un profeta degli orrori dell’apartheid, che, come Adamastor, vaticina eventi destinati inesorabilmente a compiersi. Il poeta si allontana dalla sua terra, ma la «terrific shade» del gigante continuerà ad infestare la sua memoria, come un memento e un presagio dell’imminente distruzione violenta di una civiltà.

Bibliografia e sitografia

Testi primari

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Testi secondari

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Almeida Cíntia Machado de Campos (2014), Viagens de Fora para Dentro: Profanações e Vagamundagens de Luís Carlos Patraquim, Tese de Doutorado, Rio de Janeiro, UFRJ.

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Siti web

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Note

  1. Il poeta non fornisce spiegazioni sulle origini del dono profetico di Adamastor, tuttavia questa facoltà lo pone sullo stesso piano di divinità come Zeus e Proteo.
  2. L’indipendenza del Mozambico viene sancita nel 25 aprile del 1974 dalla Rivoluzione dei garofani, che pone termine al regime salazarista.
  3. Il verso esatto è «de joelhos o medo/puxa lustro à cidade».
  4. Per citare un altro componimento presente in Monção, «nosso é o tempo do canto/conquistado a sangue/e terra».
  5. È interessante notare come in Adamastor sia stata inserita anche una traduzione de L’albatros di Charles Baudelaire, allegoria dell’artista incompreso ed emarginato dalla società, con il quale Campbell si identificava. Inoltre, l’immagine del poeta come figura isolata ed eroica al tempo stesso, incompresa dai suoi simili, percorre similarmente a un fil rouge la raccolta: questo nucleo tematico lega infatti alcuni componimenti, tra i quali spiccano To a Pet Cobra e Tristan da Cunha.
  6. L’attuale comunità indiana presente in Sudafrica discende in gran parte proprio dai lavoratori indiani, che si occupavano delle colture di canna da zucchero in Natal.
  7. Tra i vari conflitti e gli episodi di violenza verificatisi nel corso del Great Trek, è possibile ricordare l’inganno del re Dingane ai danni dei boeri: nel 1837 il sovrano zulu fece infatti uccidere a tradimento il leader dei voortrekker, Piet Retief, e i suoi uomini. Inoltre, attaccò un accampamento boero causando la morte di circa cinquecento persone. Il dominio di Dingane cominciò a disgregarsi l’anno seguente, a seguito della sconfitta sofferta nella battaglia di Blood River per mano di Andries Pretorius, nuovo leader dei voortrekker.
  8. Mi riferisco in particolare a Jeremy Cronin e al suo articolo Turning Around Roy Campbell’s Rounding the Cape, citato in precedenza.
  9. Espressione utilizzata da Campbell in uno dei suoi articoli pubblicati su «Voorslag».
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