Edoardo Maccioni, Ymnaerve

I

Il telefono mi bolle in mano, mi domando ogni sera dove metterlo. Resto dubbioso se appoggiarlo o meno sul comodino; sono sicuro che solo a pochi centimetri riesco a sentire la sveglia. Lo lascio a testa in giù, vicino al cuscino, pregando che il calore non mi sfiori nemmeno stanotte. Patisco mortalmente il caldo: in camera mia, d’estate, c’è un caldo che si sbulletta e lo sostengo a fatica. Il caldo tirerà su l’ancora a breve, mi devo sbrigare. Devo riaddormentarmi.
Il fianco sinistro lo dedico alla resistenza; credo di voler entrare nella ricerca, di continuare a vivere d’accademia, di non abbandonarmi. Immagino una mia lezione o, meglio, una conferenza. Sì, meglio una conferenza: una passione marcita dal continuo procrastinare non può affrontare una lunga serie di lezioni. Terrò questo discorso preparato in due giorni, un giorno e mezzo, un giorno. Fantastico su quanto è perfetto il mio lavoro, mi sento appagato per un commento come ‘Davvero brillante!’ , ringrazio, mi metto a sedere, non ascolto l’oratore immaginario successivo perché devo tornare al caldo del cuscino. L’affanno, veloce, trent’anni, quaranta, settanta, ottanta, novantacinque, non vedrò niente per sempre, in eterno. La resistenza cede, le mie ginocchia sprofondano nel parquet in una sordissima caduta. Il viaggio dal letto al pavimento è breve, istantaneo. Dalla mia angoscia esce solo un urlo soppresso, ‘Mamma!’ . L’ultima lettera non si chiude del tutto, riesco a bloccare l’urlo e la morte. ‘Mamma’, perché da solo non riesco a salvarmi. L’impatto non provoca dolore; mi sveglio, scettico, sicuro di vivere per sempre. Esco dalla mia tomba di legno quasi soggiogato dall’imponenza del mio armadio, un signore poco più alto di me, guardiano di cose che smetterò di vedere per sempre. Tutto ciò mi preoccupa? Adesso, fortunatamente, no.
Fianco destro. Risalgo sul letto, appoggiato contro il muro. Tanto il fresco quanto il desiderio di non salpare, riprendere il telefono, guardare video che sigillano le mie palpebre poco a poco. Tutto è dovuto allo svago, distrazione ultima dal niente eterno. So che morire equivale al nero e che il nero equivale al nulla. Bloccato l’urlo, blocco il battito accelerato e mi lascio dormire.

II

Ymnaerve, o l’Unica Luce, risiede sul caldo che mi attrae verso la morte. Riposa indisturbata sul suo sole, dipinta estensione nucleare del suo nido. I pensieri della Luce sono soliti invadere i suoi riflessi, rendendola assorta nel suo mare, insonne. Se la Luce dormisse, farebbe fresco; il caldo non avrebbe voglia di partire. Ma la Luce è fatta di caldo, e l’eternità l’affligge.
Fianco sinistro. Affanno, infinito, eterno, senza fine, infinito, come morire, senza fine. Scivola elegante, un’esplosione immortale. Cade, colorando il freddo, sulla nostra Terra, nella mia camera. I miei occhi disillusi vengono accecati da un’orrenda luce bianca che scioglie il letto e il signore. Il caldo non mi tange, l’ho patito per tanti anni. È una figura sicuramente inusuale, a tratti sinuosa; in questo bianco cumulo riesco a scorgere degli occhi persi che cercano il bene, un salvatore, l’ancora per tornare su. Col terrore di partire. Cerco il dialogo, senza spaventarmi.

‘Hai visto tanto nero?’

Quello che per me è un volto, non annuisce, non nega.

‘Potresti aver visto grigio. Si manifesta in primavera, con la finestra chiusa.’

Il volto placa le sue forme, riflettendo zigomi.

‘Ricordati di non modellare le ginocchia. Se dovessi cadere di nuovo, moriresti di dolore.’

I raggi si intrecciano come per dare un volume alle sue preoccupazioni. I capelli d’arancione primordiale pervadono la camera che, lentamente, brucia e crolla.

‘Una bocca però serve. Avrai bisogno di urlare, come tutti.’ le dico in un’intesa di sarcastici sguardi che hanno già visto una fine.
Non mi è chiaro se abbia la possibilità di rispondermi, ma una linea nera, che contrasta il candido incendio, rivela un sorriso che accomuna i nostri infiniti.

III

Salpiamo.
Dalla costa riesco a scorgere il mio tanto amato paese divorato dalle fiamme di Ymnaerve. Lì vivono i miei ricordi, la mia serenità, mia mamma; il fumo riesce a trasportare le ceneri della triade sulla nostra nave lasciandomi impietrito, conscio della perdita. Ancor prima che inizi a chiamarla, Ymnaerve si avvicina, mi prende per mano. La sicurezza del nostro contatto mi convince a lasciare la poppa per guardare, con la Luce, il mare. Ci sediamo con le schiene ingobbite contro l’albero maestro e lascio che appoggi la testa sulla mia spalla. La sua chioma si confonde coi riflessi dell’acqua e, coprendo la sua bocca implicando il divino silenzio, lascia che io sproloqui sulle mie considerazioni.

‘Spesso e volentieri penso al non poter più mangiare. Non fraintendere con l’idea del gusto, del godere del cibo: parlo di sfamarsi, della sensazione d’essere sazio. Finisce lì, non ci sarà più qualcosa che entra, che riempie — ’

Un suo sospiro interdetto conclude momentaneamente la mia fame. Apre gli occhi che cercavano di rilassarsi con le riflessioni sul terrore e mette una gamba sopra la mia, cercando disperatamente una risposta.

‘E non c’è soluzione. Accetti che sia per sempre, come le nostre illuminazioni notturne. Non è mai facile — ’

‘Capito? Lo trovo insopportabile.’

Un nuovo sospiro, che concorda con i miei fastidi, esce dalle sue labbra rosse. Allora mi volto, mosso dalla piacevole pressione della sua pelle. Ymnaerve, una faccia bianca come la lebbra. Mi abbandono a un abbraccio ricambiato, punito con la vergogna. La stretta implica un bacio che dimentica il caldo, sciogliendo persino il rumore delle onde.

IV

Mi ritrovano morto sul mio letto. Un infarto, vittima di pigrizia. Il signore evita spiacevoli testimonianze per i miei genitori: lui che appuntò ogni voce sorda dei miei crolli, preferisce tenersi ogni mio sconforto. Mio padre rischia di soccombere alla stessa tachicardia che pensavo avrei potuto fermare. Mia madre non permette al dolore di linciarle un battito, ma inonda il mio petto ormai freddo con lacrime altrettanto gelate. Alzando la testa per dare respiro al vuoto, lascia che i raggi del mattino seppelliscano il suo mare sotto un inarrestabile, sereno calore.

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