Di Azorín, all’anagrafe José Augusto Trinidad Martínez Ruiz (1873-1967), circolano numerosissime traduzioni nel mondo. Eppure, nonostante sia una delle pietre miliari della prosa novecentesca e del rinnovamento letterario, risulta un classico negletto per l’editoria italiana. A causa delle misure di isolamento culturale introdotte dalla dittatura di Miguel Primo de Rivera (1870-1930) e rafforzatesi durante quella di Francisco Franco (1892-1975), nel corso del Novecento la nostra filiera si approcciò alle nuove voci della contemporaneità spagnola in modo titubante e poco convinto. Pure la differenza di usi e costumi tra i due paesi contribuì a frenare la presenza delle nuove leve ispaniche sugli scaffali delle librerie italiane. Segnata da tutta una serie di discontinuità e di lacune, l’importazione si adattò e si modellò sulle iniziative portate avanti da ispanisti di professione o da appassionati che non sempre appartenevano alla cerchia degli intellettuali. Gli uni favorirono la pubblicazione di edizioni critiche rivolte a un pubblico di soli studiosi, gli altri una fitta rete di traduzioni di dubbia qualità rivolte a una platea affascinata dalla novità. E sebbene oggi la letteratura spagnola si sia scossa di dosso quello «strisciante topos esotico» (Profeti 1986: 365) che per lungo tempo la vide confinata in una posizione di marginalità, lo stesso non valse per Azorín. Questo perché la comunità accademica, solitamente aliena alle questioni riguardanti la promozione e la commercializzazione di titoli (Puccini 1987), condannò quasi unanimemente l’autore alicantino al silenzio.
Reo di aver simpatizzato per il militarismo di Miguel Primo de Rivera e per il falangismo di Francisco Franco, l’iniquo quantitativo di interventi volti allo studio o alla traduzione di Azorín è un segno evidente di come lo stigma legato all’ideologia politica vinse sui suoi meriti letterari e portò alla relegazione dell’autore alicantino nel cosiddetto purgatorio delle lettere. Fortunatamente, in tempi recenti si sta verificando una riscoperta del «poeta en prosa» (Sancho Sáez 1990: 96) anche se c’è un genere che continua a risentire sia degli strascichi lasciati dalla riduzione al silenzio sia dall’impatto che il boom ispanoamericano ebbe sul nostro polisistema letterario: il racconto. A fronte dell’insorgere di una nuova sensibilità nei confronti della narrativa breve, tra anni Sessanta e Settanta le case editrici si focalizzarono principalmente su quegli autori giudicati più in linea con i gusti del lettore medio italiano. Assimilata infatti la cultura latinoamericana a quella spagnola con lo scopo di suscitare nel pubblico un’impressione di familiarità (Nencioni 1992), Azorín si scoprì danneggiato da una simile strategia di vendita in quanto venne accentuandosi lo stato di esclusione nel quale si ritrovava. Per questo motivo si è pensato di proporre la traduzione inedita del racconto Gestación, affinché venga messa in luce quell’area della produzione azoriniana tuttora ignorata sia dalla comunità dei lettori che da quella delle case editrici.
Pubblicato il 29 aprile 1928 sulla rivista illustrata «Blanco y Negro», il testo rientra a pieno titolo in quella che è stata definita dalla critica come tappa surrealista. Corrispondente alla terza fase estetica dell’autore alicantino, è stato stabilito che essa si colloca tra il 3 novembre 1926, data della prima di Old Spain!, e il 10 maggio 1930, data della prima di Angelita (Martínez Cachero 1960). Tale classificazione la si deve ai tre articoli che Azorín scrisse per il settimanale «ABC» di Madrid nel 1927 e in cui si dichiarava la direzione surrealista presa dal suo teatro: Autocrítica (17 marzo), El superrealismo en el teatro (21 marzo) e El superrealismo es un hecho evidente (7 aprile). Tuttavia, capire quali precetti bretoniani avesse effettivamente abbracciato fu fonte di ampi dibattiti, disquisizioni, se non addirittura diatribe, che presero il nome di «caso Azorín» (García Gallego 1988: 158). Quel che è certo è che si assistette a un intento di rottura e di modernizzazione dei canoni su cui poggiava la letteratura del tempo e per tale ragione la critica avanzò la possibilità di ridenominare il terzo periodo come «experimental period» (Lott 1964: 320). A dispetto però della validità, la proposta non ricevette grandi consensi poiché si riteneva che per Azorín il movimento nato dal Manifesto del Surrealismo (1924) fosse uno dei tanti ismi delle avanguardie quando in realtà «egli persegue, come da giudizio incontrastato, l’attributo ed anzi l’esplicita denuncia di surrealismo» (Cifarelli 1957: 753). A tal proposito, Manso (1987) evidenziò che l’autore alicantino aveva semplicemente assunto una posizione eterodossa rispetto al dogma di Breton (1896-1966) e col tempo il suggerimento mise d’accordo un’ampia fetta degli specialisti azoriniani sino alla tassonomia promossa da María Martínez-Cachero Rojo (corsivo mio):
Superrealismo heterodoxo el de Azorín, alejado del postulado por Breton para quedarse en un punto de fuerte contacto con la realidad; un superrealismo entendido como intención o impulso renovador y enriquecedor y que se manifiesta en el alejamiento de la realidad a través del sueño, la imaginación, la locura, el misterio y sobre todo lo maravilloso: personajes extraños que ofrecen objetos mágicos capaces de cambiar el curso del tiempo, fuerzas extrañas que arrastran al ser humano irresistiblemente, el poder de la muerte simbolizada en personas o cosas, todo en un ambiente vago, difuso e irreal donde los objetos alcanzan dimensiones desproporcionadas, y sin abandonar nunca el humor, tan surrealista como azoriniano (Martínez-Cachero Rojo 2001: 336).
Oltre alle due opere teatrali citate supra, a questa tappa appartengono anche quei titoli riuniti sotto all’etichetta di Nuevas Obras e che nello specifico sono Félix Vargas: etopeya (1928), Blanco en Azul: cuentos (1929), Superrealismo: prenovela(1929) e Pueblo: novela de los que trabajan y sufren (1930). Si tratta di opere trasgressive in quanto prendono le distanze dal mimetismo di ascendenza ottocentesca, non importa se impegnato socialmente, in favore di quei codici comunicativi che avrebbero potuto sostituirsi al predominio della parola scritta e sopperire al clima di sfiducia che gli si era creato attorno. «Los poetas – sobre todo los de espíritu deshumanizante -, seguidos por los novelistas más inquietos, trataban de llevar a la palabra la técnica impuesta por la imagen cinematográfica» (Granell 1949: 105) e l’autore alicantino non solo si accodò alla loro scia ma elaborò un connubio tra la settima arte e le formule sceniche dei maestri teatrali di inizio Novecento. Ne derivò tutta una serie di soluzioni narrative che resero Azorín una sorta di precursore del Nouveau Roman1 e che vennero messe in atto nei diversi testi di questo periodo: istantaneità fotografica della diegesi, riproduzione cinematografica della realtà, pastiche parodico autoriflessivo, duplicazione/sdoppiamento per mise en abyme, parallelismi dimensionali, discontinuità spazio-temporali, astrattismo assoluto e demarcazione autore/lettore tramite il processo della scrittura (Risco 1980). Altro elemento peculiare è il valore assunto dalla dimensione cromatica, la quale si configura alla stregua di un fil rouge che si dipana lungo l’arco temporale che va dal 1927 al 1930 e in cui «el contrapesar intelectualizado de azul y blanco en Blanco en azul» (Livingstone 1970: 203) traccia la linea di demarcazione tra il nero della genesi letteraria, come ne El caballero inactual, e il bianco dell’eternità, come ne El libro de Levante2.
Se quindi l’azzurro venne configurandosi come il colore associato alla riflessione e alla meditazione, a fornire ad Azorín lo spunto relativo all’alternanza tra bianco e nero che interessò le opere della terza fase fu proprio la rivista che avrebbe accolto tra le sue pagine Gestación. Affascinato dal gioco di chiaroscuri evocato dal titolo, «Blanco y Negro», l’autore alicantino non si fermò alla sola suggestione data dal contrasto di colori bensì diede prova di aver recepito e resi propri gli intenti programmatici con cui il giornalista Torcuato Luca de Tena y Álvarez-Ossorio (1861-1929) aveva concepito il suo progetto editoriale nel 1891 (corsivo mio):
El Blanco y Negro, símbolo de la fuerza, son el risueño tono con que se confecciona los trajes de novias y los de los niños de la primera comunión; blancas son las aristócratas gardenias, las cabezas de nuestros padres, al alba del sacerdote, las rizadas tocas de las abadesas y las velas que alumbran los altares. El negro parece que comprendía los dolores, las penas, los sufrimientos. De negro se visten las viudas y los huérfanos; negros son también los pensamientos de unos y de los corazones de otros. Nuestro periódico, al representarse con el título que lo hace, se funda, pues, en el perpetuo contraste que por todos los lados se observa. La risa y el llanto, lo serio y lo festivo, lo formal y lo caricaturesco, lo triste y lo alegre, lo grave y lo baladí, todo es blanco y negro que nos envuelve desde que nacemos, será lo que nuestro semanario refleje, lo mismo en su parte artística que en la literatura (Iglesias 1980: 483-484).
Azorín collaborò in due tempi con la testata madrilena: da febbraio del 1904 a dicembre del 1907 e da gennaio del 1925 a marzo del 1930. Di questi due periodi, a quello iniziale corrispose un maggior numero di contributi mentre al secondo l’elaborazione di quei racconti che attraverso il disorientamento spazio-temporale e ontologico mettono in discussione i meccanismi alla base della genesi letteraria. Tuttavia, non è solo la presenza dell’elemento metaletterario ad accomunare queste narrazioni brevi ma anche la costruzione della diegesi attorno al poeta Félix Vargas. Infatti, oltre a Gestación, ci sono altre cinque prose che hanno come protagonista questo personaggio e nello specifico si tratta di El mar. Los niños en la playa (24 luglio 1927), El secreto oriental (21 agosto 1927), El topacio (29 gennaio 1928), La balanza (29 luglio 1928) e El reverso del tapiz (26 agosto 1928). Esse tratteggiano la figura di un intellettuale incompreso dagli uomini e visitato dagli angeli, compagno fedele della donna amata e fruitore dei piaceri della vita, creatura reale e al contempo di fantasia che non solo viene concepita dall’autore ma che si autoconcepisce. Ripresi tutti questi spunti nel romanzo Félix Vargasdel 1928, il testo è caratterizzato dall’assenza di una vera e propria trama in quanto il dipanarsi della storia segue il flusso di coscienza e l’esperienza del tempo vissuti dalla voce narrante al fine di condurre un’analisi oggettiva sulla metaletteratura (Granjel 1958). In ragione di ciò, l’autore alicantino operò una scissione tra componente meta e componente letteraria polarizzandole rispettivamente nei personaggi di Andrea e del poeta Félix Vargas (Ricau-Hernandez 1995).
A ogni modo, tutti questi racconti testimoniano quella sensibilità artistica per il bozzetto, la vignetta, l’appunto e il frammento che Azorín coltivò durante la terza tappa della sua carriera e che lo rese uno dei maestri della narrativa breve contemporanea (Díaz Navarro e González García 2002). Una riprova di ciò la si ha nei testi già menzionati sul poeta Félix Vargas i quali, successivamente alla pubblicazione su «Blanco y Negro», confluirono nelle raccolte Blanco en Azul del 1929 e Cavilar y Contar del 1942. Per l’esattezza, tra le storie racchiuse nel volume del ‘29 si annoverano Gestación, Los niños en la playa3, La balanza e El reverso del tapiz mentre in quello del ‘42 figurano El secreto oriental e El topacio. Le une centrano l’attenzione sulla relazione sussistente in letteratura tra creatore e creazione, le altre invece sanciscono il primato del racconto rispetto agli altri generi della prosa, il valore della brevità, la filiazione con il mondo della stampa periodica e l’esistenza di una minuzia necessaria alla stesura delle narrazioni di corto respiro non padroneggiabile da chiunque. Circoscrivendo però il nostro discorso a Blanco en Azul, concordiamo con Baquero Goyanes (1968) sul fatto che l’opera segnò la maturità azoriniana nel campo della narrativa breve. Assente il carattere miscellaneo che aveva contraddistinto le raccolte di inizio Novecento (Ezama Gil 1992), il volume si presenta come un’unitarietà dotata complessivamente di senso e incentrato su un’isotopia ben definita che è quella del passaggio delle nuvole in cielo. Secondo D’Ambrosio Servodidio (1971), il bianco delle nuvole simboleggia il transitorio delle vite umane mentre l’azzurro del cielo corrisponde all’eternità. Di differente opinione è Martínez del Portal (1992), secondo cui il tema fondamentale della raccolta è quell’insondabilità del mistero che permea ogni aspetto della vita umana e a cui l’uomo accede in minima parte solo grazie all’intervento di superiori entità angeliche. Una buona sintesi delle due posizioni ci viene da Gayana Jurkevich, la quale dichiara che «the continuous weaving and unraveling of clouds in the sky become objective correlatives for his thematic hobby-horses: eternity and inaccessibility of diversity and sameness within the simultaneously mutable and changeless nature of time» (Jurkevich 1999: 100-101). Per far sì di tracciare un preciso percorso di lettura, Azorín dotò Blanco en Azul di due soglie testuali, vale a dire una dedica allo scrittore e amico Gabriel Miró (1879-1930) e un prologo attraverso cui riuscì a ordinare i testi attorno al valore della dualità.
A caratterizzare la raccolta sarebbero infatti due opposizioni binarie, CONOSCIUTO/SCONOSCIUTO e REALE/IRREALE, scomponibili a loro volta in un altro rapporto antitetico concernente il secondo termine di contrasto fra le due coppie in contrapposizione: CONSCIO/INCONSCIO e FATTUALE/POTENZIALE (Peyraga 2000). Ecco delinearsi allora il metaletterario come quel piano della realtà in grado di emergere solo quando ci si rende conto che esiste un’altra dimensione sensibile oltre a quella empirica e che sul medesimo livello di manifestazione della psiche umana si esprime anche il pensiero letterario. Al fine di addentrarsi entro tale cornice conoscitiva, c’è un elemento la cui funzione è quella di affrancare il lettore dal testo e si tratta del soprannaturale. Per mezzo di un cortocircuito volto a scardinare le fondamenta della materia narrativa, le istanze diegetiche rivelano i meccanismi sottostanti la scrittura stessa e quindi non è affatto vero che l’ultraterreno e il trascendente sono «el punto débil en donde el prurito experimentalista, aun tratándose de un escritor tan centrado como lo fuera Azorín, acaba en exorbitancias» (Mejía Duque 2001: 90). Chi afferma il contrario dimostra di non aver compreso appieno né il progetto azoriniano né i suoi caratteri costitutivi, magistralmente recensiti dal giornalista Eduardo Gómez de Baquero in occasione dell’uscita dei racconti (corsivo mio):
Los cuentos de Blanco en Azul son joyitas, o, si se quiere, como delicados cristales venecianos de bellas irisaciones, que, a su modo también, son joyas. En estos búcaros ha querido poner el cuentista un perfume antiguo, el aroma del misterio, a cuya exploración y manifestación artística tienden estas obras de la nueva época del autor, así en el teatro como en el libro. Ello da a los cuentos de Blanco en Azul […] impresión de presencia de una fatalidad oscura y amorfa que ronda en torno de las vidas humanas, buscando las que ha de devorar, como el león simbólico de la Biblia (Gómez de Baquero 1929: 2).
Altra originalità dell’opera è il personalismo infuso dall’autore alicantino nelle prose del volume e di cui un chiaro esempio è l’inserto autobiografico presente in Gestación e rappresentato dalla casetta ubicata nel quartiere collinare di Errondo-Aundi a San Sebastián, cittadina basca dove l’autore alicantino trascorreva le estati (Vidal Ortuño 2007).
Avviandoci verso la conclusione, adesso ci soffermeremo su alcune caratteristiche dei racconti da una prospettiva traduttiva. In generale, nelle narrazioni brevi si accentua quella «sequedad» (Conde 1993: 242) tutta azoriniana per cui la struttura delle frasi viene ridotta tramite l’impiego della paratassi, dell’asindeto e dell’ellissi verbale. Pure la punteggiatura concorre alla formazione del modus scribendi, in special modo il punto e virgola e il trattino di sospensione. Essi infatti si integrano perfettamente nell’oratoria rovesciata ricercata dall’autore alicantino, vale a dire un processo retorico la cui catarsi è data dall’epurazione ed eliminazione di qualsivoglia orpello linguistico in favore di uno stile all’apparenza chiaro e immediato (Pérez-Rioja 1990). Invero, si tratta di una difficoltosa semplicità dove all’essenzialità della sintassi fa da contrappunto la ricchezza lessicale delle descrizioni e la collocazione all’interno del testo di gruppi di sostantivi e aggettivi che poi vengono enumerati e ripetuti lungo l’arco diegetico per mezzo di una tripla anadiplosi. E se la risultante di tali oscillazioni culmina in uno stile poco apprezzato dalla critica e che è stato definito spregiativamente come «asmático» (Casares 1944: 113), ciò non giustifica asserzioni alla stregua di quella della studiosa Kathleen Mary Glenn che nella sua monografia sull’alicantino scrisse: «I have concentrated on the novels and most important collections of sketches and essays and have given minimal consideration to Azorin’s short stories and plays» (Glenn 1981: 9). Si auspica invece che la proposta di traduzione qui avanzata possa contribuire all’abbandono di una simile visione negativa e che al contempo si articoli quale ulteriore piccolo passo verso la riscoperta di Blanco en Azul.
Gestazione4
Un mazzo di crisantemi – a novembre –; un mazzo sulla tovaglia a quadretti bianchi e rossi; contemplazione; visione; un momento di incoscienza; i fiori bianchi, giallognoli scompaiono. Una casetta con le pareti bianche e le finestre verdi in cima a una collina… La strada; la vetrina di una libreria; libri con copertine rosse, grigie, gialle; la macchia gialla di un volume attira lo sguardo per un momento; visione; delirio; incoscienza; profonda sensazione di tristezza acuta; il libro scompare; spunta la casetta bianca e verde in cima alla collina, lassù, lontana, nello spazio e nella spiritualità… La teiera grigia e nera sul tavolo; scintillio d’argento, di vetri; uno scorcio di cielo azzurro dalla finestra; l’azzurro è intenso; gli occhi vanno dallo scintillio dei vetri alla limpidezza del cielo; un momento; visione; la casetta bianca con le persiane verdi spunta, riappare.
E ora ci soffermiamo a lungo nella sua contemplazione. Lontani, sì, nel tempo e nelle sensazioni. Lontani, a San Sebastián. Il pensiero va dall’altura, a 650 metri sul livello del mare, alla lontana città cantabrica. La casetta bianca e verde domina tutta la città. Distanti dai suoi muri 614 chilometri, ci sembra di tendere la mano e di accarezzarli. Li tocchiamo come tocchiamo – delicatamente – i crisantemi del mazzo. Dall’alto della collina, dalla porta della casetta – di Errondo-Aundi –, si vede laggiù in lontananza la città; la torre del Buen Pastor spunta dal caseggiato; poiché al margine della città si trova il mare, la torre si staglia in mezzo al mare, dopo essere spuntata tra i tetti. Si staglia sul mare, e anche attraverso i suoi trafori e le sue punte si intravede il mare. E da una parte si scorge la stazione di Amara; i treni partono, arrivano; si dirigono a Bilbao, a Pamplona o provengono da quelle città. Ai piedi del poggio passano veloci – con un rumore sordo – i tram elettrici che vanno a Hendaya, a Hernani o che rientrano da quelle due località. E la Fabbrica del Gas mostra il suo gasometro panciuto, rotondo. La casetta ha le porte e le finestre chiuse. La circonda una spessa boscaglia; una cancellata circoscrive un piccolo spazio di fronte alla porta; la via passa lì davanti; un parapetto di pietre bianche separa questa carreggiata dal pendio scosceso – tappezzato di prato verde –, che scende fino a un’ampia maremma. Strada; la libreria; i volumi rossi, giallognoli, grigi; lo sguardo si sofferma su una copertina; visione; la casetta di Errondo-Aundi, bianca e verde, spunta all’improvviso; un treno fischia ora nella stazione lontana, ad Amara; è in partenza; lo si vede uscire tra le rotaie intricate; va lasciando dietro di sé una scia di fumo nero; forse la motrice che lo traina è quella che porta a lettere dorate il nome di Solube; tutte le sere, alle sei, è in stazione, vicino al deposito dell’acqua. La teiera sul tavolo; il cielo azzurro; scintilla l’argento; splendono i vetri; la teiera si trasforma nella casetta bianca e verde che si trova a 614 chilometri da Madrid.
Lontananza dello spazio e delle sensazioni. Dalla banchina della stazione di San Sebastián, attraverso l’ampio lucernario della copertura a vetri, si vede lassù, adagiata nel verde, la casetta bianca; siamo appena arrivati; il nostro primo sguardo è per la casetta di Errondo-Aundi; le sue finestre e le sue porte sono chiuse; vorremmo accarezzarla con la mano, delicatamente; sono quattro semplici muri, sormontati da una larga e bassa torretta, anch’essa dalle finestrelle verdi. Avremmo voluto, da lontano, dalla stazione di arrivo, qui e ora da Madrid, allungare la mano e posarla blandamente sui suoi muri bianchi. La teiera brilla sul tavolo; silenzio; pace profonda; i quadretti bianchi e rossi si estendono per tutta la tovaglia. E quando a fine estate andiamo via da San Sebastián, la mattina, dalla stessa banchina, gettiamo l’ultimo sguardo alla casa bianca e verde. Non ci abbiamo vissuto; non abbiamo mai visto aperte le porte e le finestre di Errondo-Aundi; ma tutte le sere siamo andati alle sei, sempre alle sei, in cima alla collina e ci siamo seduti sulle pietre bianche del parapetto che delimita la via. Passando per la stazione di Amara, Solube, la nostra amica locomotiva, era vicina al deposito dell’acqua. Dalla città spunta il campanile del Buen Pastor. Trafigge il mare; si vede il mare chiaro e luccicante attraverso i trafori di pietra della torre. Trafigge il mare ed entra acutamente nell’azzurro del cielo. Un treno ha lanciato un grido acuto.
Qui, a Madrid, così lontani, tra quattro pareti, su di un tavolo, nel silenzio, i crisantemi si inclinano, sui bordi del vaso, come un tantino assorti. Contemplazione; visione; evocazione, quasi dolorosa, di tutte le sensazioni cristallizzate, condensate, attorno alla casetta bianca e verde. Arriva il crepuscolo; nella penombra spuntano i puntini bianchi, freddi, delle luci del gas; le prime luci del gas attorno alla fabbrica; il mare lontano è andato scomparendo. Lo sguardo va dai crisantemi bianchi, gialli, qui a Madrid, alle fredde lucine del gas. Anche qui il cielo azzurro comincia a sbiadire. Fischia a lungo e lamentosamente un treno? Sono stati scambiati, sovvertiti lo spazio e il tempo? Petali bianchi dei crisantemi; pareti bianche di Errondo-Aundi…
Dalla passeggiata dei Fueros, a San Sebastián, si intravede, in cima alla collina verde, la casa bianca e verde. La lunga cancellata di ferro si estende per tutta la passeggiata, costeggiando il fiume. Ci sporgiamo dalla balaustra in un momento di profonda quiete? Lo sguardo va dalla tersa superficie dell’acqua alla collina lontana. Momento di intensa quiete spirituale. E le creazioni dell’immaginazione? E Félix Vargas, il poeta? Si odono, di quando in quando, sulla scricchiolante sabbia fine della passeggiata, i passi di un viandante. Ci troviamo nella città cantabrica o a Madrid? Si sono allontanati i nostri occhi dal mazzo di crisantemi? Sporti dalla balaustra, indolenti, sognanti, vediamo avvicinarsi a noi il poeta Félix Vargas. Perché non dovrebbe avere vita reale questa creazione del nostro spirito? E perché non dovrebbe abitare nella casetta bianca e verde? Trasferiremo questo poeta immaginario con la propria, personale condizione di malinconia e di sogno. Tutto l’ambiente spirituale cristallizzato attorno alla casa di Errondo-Aundi metterlo, con dettagli, con particolari espressivi, in Félix Vargas. Ora, sulla balaustra dell’Urumea, qui, di fronte al mazzo di crisantemi, a Madrid, proviamo una profonda sensazione di nostalgia, di tristezza, di delusione profonda, di distacco dalle cose. Aneliamo vedere il tempo, tutto il tempo, condensato in un minuto e contemplare tutto lo spazio su un solo piano. Félix Vargas, il poeta, vive ormai nella casetta bianca e verde. Ci ha raggiunti, appoggiati qui alla balaustra, e ci ha posato delicatamente una mano sulla spalla.
Ma è questo il personaggio che abbiamo creato? È questo il poeta immaginario che avremmo voluto creare? Lo vediamo in maniera chiara e distinta o si trova ancora tra le nebbie e i recessi del nostro inconscio? Félix Vargas è avanzato lentamente verso di noi; è vestito di nero. Non è questo l’uomo che conoscevamo; il suo volto è pallido; nei suoi occhi leggiamo una profonda tristezza. La tristezza del poeta è la stessa che sentiamo appoggiati alla balaustra del fiume – davanti al paesaggio indefinito e malinconico della terra basca –, ed è quella che ci pervade di fronte al mazzo di crisantemi bianchi e gialli. La sensualità placida, ridente, di Vargas, è scomparsa. Ci compiacciamo fra noi, suoi creatori, di aver fatto sì che la voluttuosità del poeta, il suo riservato e profondo ardore della donna, non esista più.
Félix Vargas non può più essere lo stesso uomo che godeva all’ora del tramonto, mentre fanno capolino qua e là le prime luci della sera, di un puro e intenso piacere. Dobbiamo scindere dal poeta questo lato amante delle sensazioni. Se ora vive nella casetta bianca e verde, lo dobbiamo ripensare in un’altra ottica; per essere in armonia con il mistero delle porte e delle finestre chiuse di una casetta immaginaria, in campagna – ora scompare anche la casa autentica di Errondo-Aundi –, dobbiamo far sì che a Félix gli sia successo qualcosa di straordinario. Contempliamo il mazzo di crisantemi; gettiamo uno sguardo alla casa bianca e verde della collina; un treno ha appena fischiato un fischio stridulo, lungo, lamentoso. Félix Vargas, il poeta, è pervaso da un profondo dolore. Ha perso la compagna di una vita. E la sua vita intera è cambiata. Così potrà vivere nell’ambiente insolito, misterioso, della casetta che abbiamo immaginato. Félix non è più la sensuale, delicata, fine, segretezza, che era prima. Non è che fosse infedele alla sua adorata compagna; le infedeltà del poeta erano così riservate, così discrete, che non potevano essere considerate come una mancanza; il culto alla donna – in pratica – lo necessitava come un eccitante necessario, ineludibile, per la sua creazione poetica. Senza quella sua sensualità, riservata, intensa, clandestina, il poeta non avrebbe potuto scrivere le sue pagine migliori. E ora la sua vita è cambiata; la polarizzazione della sua sensibilità ha preso un’altra direzione. Félix Vargas è qui, sì, con noi, vicino alla balaustra dell’Urumea, seduto allo stesso tavolo in cui si erge il mazzo di crisantemi; di crisantemi bianchi, giallognoli, che si inclinano, assorti, sul bordo del vaso.
La coscienza deborda dal cervello? La coscienza è più estesa del cervello? E quando moriamo, la coscienza, la personalità psichica, continua a vivere? Nel ritrovarsi distanti, lontani, da una persona amata, al momento della sua morte, non avete sentito un insolito, strano, misterioso, rumore secco che era come lo schiocco di un bacio, di un bacio supremo, disperato sulla vostra guancia? Félix è stato percorso da un tremito nell’istante in cui è morta la compagna di una vita. Non era presente – stava compiendo un lungo viaggio –, e sentì nell’ora esatta, precisa, della morte quello schiocco strano, spaventoso. Dobbiamo far sì, nella nostra creazione, che il poeta si senta commosso, scosso sin nel profondo del suo essere. E ora non può, non deve, non vuole più godere della sua sensualità. Viva la compagna, è riuscito a concedersi alle sue infedeltà riservate, discretissime; ora non riesce a farlo; sente, in ogni momento, accanto a sé, presente, un essere immateriale, etereo, impalpabile. Tutto gli dice che la presenza di questo essere è reale; lo dice il suo stesso io, quello del poeta, e l’ambiente delle cose. Mettiamo Félix Vargas a vivere nella casa di campagna che abbiamo immaginato, ora in questo momento, dinanzi al mazzo di crisantemi; per immaginarlo abbiamo preso a modello la casetta bianca e verde di Errondo-Aundi. E facciamo sì che nella sua solitudine, rinchiuso in sé stesso, mentre sente in ogni momento la presenza dell’essere immateriale accanto a sé, ormai distaccato dalle sue sensualità vitali, imprescindibili per la sua opera d’arte, Félix finisca per sprofondare, un poco alla volta, nel precipizio dello squilibrio, del delirio mentale. Una profonda simpatia ci lega a lui; lo guardiamo in silenzio quando distogliamo lo sguardo dal mazzo di crisantemi; quando, congedandoci, stringiamo per un istante la sua mano tra le nostre. Non sappiamo – abbiamo un vago presentimento tragico – non sappiamo se lo rivedremo. E da 614 chilometri di distanza contempliamo, lassù in cima alla collina, la casetta dai muri bianchi e le finestre verdi. Davanti, sul tavolo, si erge il mazzo di crisantemi che debordano dal vaso.
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Note
- Corrente letteraria sviluppatasi in Francia attorno agli anni ‘50 e ‘60, i suoi principali esponenti furono Robbe-Grillet (1922-2008), Nathalie Sarraute (1900-1999), Michel Butor (1926-2016), Claude Simon (1913-2005), Claude Ollier (1922-2014), Robert Pinget (1919-1997) e Jean Ricardou (1932-2016). Ad affratellare una tale eterogeneità di procedimenti e sperimentazioni fu la ricerca di un genere ibrido che rompesse con gli assiomi del romanzo tradizionale e che tendesse verso lo scientifismo espositivo della saggistica letteraria, tanto nella sua vertente critica come in quella teorica.
- Sono i nuovi titoli dati rispettivamente a Félix Vargas e a Superrealismo nel tentativo di camuffare il carattere sperimentale delle due opere. L’uno vide la luce nel 1943 mentre l’altro nel 1948 e pare che quest’ultimo fu suggerito ad Azorín da Ángel Cruz Rueda, curatore delle sue Obras Completas (Ródenas de Moya 1999).
- La differenza di titolo tra rivista e raccolta suggerisce in quest’ultima una maggiore focalizzazione sulla coppia di bambini.
- Come edizione di riferimento ci si è basati su Azorín (1947).