Ascesa e caduta di un eroe: Bellerophontes di Marie Luise Kaschnitz

Il presente articolo ha come oggetto l’analisi del racconto Bellerofonte1 (Bellerophontes), tratto dalla raccolta Griechische Mythen (Amburgo, 1944), di Marie Luise Kaschnitz (1901-1974)2, scrittrice, saggista e poetessa tedesca, che, per la sua produzione letteraria, nel 1955 vinse il prestigioso premio Büchner. Il protagonista del racconto, Bellerofonte, è un eroe corinzio celebre per alcune grandi imprese, fra cui soprattutto l’uccisione della Chimera, e che tuttavia cade infine in disgrazia perché diventato inviso agli dèi. L’obiettivo è quello di vedere come il racconto si inserisce all’interno della tradizione, individuando le relative similarità e discontinuità con i riferimenti letterari classici (segnatamente Omero, Apollodoro e Pindaro), sia dal punto di vista narrativo che tematico. La scrittrice ripercorre infatti il mito intrecciando più fonti e rielaborandole in una vena molto personale, con un’attenzione tutta novecentesca per lo spazio dell’interiorità e per lo scorrere del tempo. Partendo dai presupposti del mito, secondo cui Bellerofonte si era macchiato di un atto di hybris tentando di raggiungere il cielo in groppa al cavallo Pegaso, Kaschnitz indaga con sensibilità moderna le ragioni profonde dietro la caduta dell’eroe, presentando inoltre un finale inedito alla vicenda. La storia di Bellerofonte rappresenta con delicatezza ed efficacia quell’ambivalenza intrinseca alla condizione dell’uomo, volto con lo spirito all’assoluto ma allo stesso tempo inerme di fronte alla potenza oscura e distruttrice della natura. Con questo racconto la scrittrice riconferma l’attualità del mito nella contemporaneità, in quanto serbatoio senza tempo di esperienze umane da cui attingere per raccontare i drammi dell’esistenza.

I Griechische Mythen

La raccolta Griechische Mythen, composta da 15 racconti a tema mitologico, fu concepita tra il 1939 e il 1940 e pubblicata nel 1944 per la H. Goverts Verlag di Amburgo. La casa editrice, fondata nel 1934 da Eugen Claassen e Henry Goverts, rimase aperta per tutta la durata del conflitto bellico; era sopravvissuta a quegli anni difficili evitando di trattare nelle proprie pubblicazioni qualsiasi argomento di attualità, senza però mai scendere a facili compromessi ideologici. Claassen dimostrò una particolare fascinazione per opere a tema antico o mitologico, in cui disse di scorgere la manifestazione di una «höhere Aktualität». Ben si spiega quindi l’interesse dell’editore per l’opera Griechische Mythen, che nel Vorwort si presenta come ricerca di un “archetipo umano”, che si rinnovi col passare delle epoche. Tale archetipo sarebbe l’esito del processo di affrancamento dell’uomo dal «dunkeln Urgrund des Elementares» per giungere, attraverso l’ausilio delle proprie forze, al «lichtere Reich der homerischen Götterwelt». Il mito greco in sé è modello di questo sviluppo, in quanto risultato di quel cambiamento avvenuto nella società greca, quando si è passati dal venerare semplici elementi naturali ad un pantheon ordinato. Sempre nel Vorwort, Kaschnitz chiarisce che il filo rosso che lega queste riscritture del mito è la rappresentazione della «liberazione dello spirito umano dalla natura primigenia». Precisa poi che tale scopo è stato perseguito in modo del tutto unbewusst, ma la cosa può suscitare alcuni ragionevoli dubbi. L’autrice sembra scrivere i racconti nella consapevolezza di contrapporre al presente dominato dalla barbarie del nazismo, un mondo dello spirito e della cultura, quello della mitologia greca, a cui si rivolge perché in esso ritrova la più alta raffigurazione delle potenzialità dell’essere umano insieme ai pericoli mortali che lo minacciano. Il mondo, per Kaschnitz, appare dominato da un conflitto insolubile tra due forze: quella della natura, che agisce in modo insensato nel generare e distruggere, presentandosi come energia incontrollata che tende al disordine, e quella dello spirito umano, che attraverso l’uso della ragione vuole trionfare sulla prima ed elevarsi al di sopra del contingente, in un eterno streben. L’uomo si presenta così come un nuovo Prometeo, che vuole emanciparsi dalla sfera naturale per poterla controllare. Non essendo però per Kaschnitz l’uomo solo ragione, egli si sente anche attratto da quella forza irrazionale e distruttiva, “luogo dell’origine”; l’individuo si presenta pertanto come entità scissa tra due forze opposte, non soltanto esteriori ma anche interiori.

Se nel Vorwort la scrittrice introduce i temi centrali dell’opera, nel Nachwort3, aggiunto alla riedizione del 1972, parla invece di come è nata la raccolta. Racconta come abbia consultato «auf eine philologisch recht bedenkenlose Weise» diversi manuali mitografici, tra cui la monumentale Pauly-Wissowa Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft , nelle biblioteche di Königsberg e Marburg, per poi scegliere, tra tutte le Sagenfassungen trovate, quelle che le piacevano di più, attingendo contemporaneamente a più fonti, intrecciando diverse tradizioni e dando loro un’impronta personale e moderna, così da creare un nuovo racconto. Di fatto, nei Griechische Mythen ci sono rimandi espliciti alle fonti (in particolare Euripide, Apollodoro, Virgilio, Ovidio, l’Odissea e Nevio), oppure vi si allude con espressioni generiche del tipo «wie die alte Sage erzählt», «wie die Sage berichtet» e «der griechische Mythos erzählt»4. Kaschnitz rivendica dunque la sua scelta, nel riprendere il materiale mitologico per le sue Umdichtungen con un metodo che, con le sue parole, «doveva aver fatto rabbrividire i vecchi filologi»5. Il suo approccio ai testi antichi non era tanto quello di una studiosa, quanto piuttosto quello di una lettrice appassionata, che si lascia trasportare durante la lettura dalle proprie impressioni e sensazioni.

Bellerophontes

Il racconto Bellerophontes narra la storia dell’eroe corinzio e del suo tortuoso percorso verso la gloria, a cui segue l’inevitabile caduta. Il racconto si presenta come rielaborazione e intreccio di varie fonti mitologiche, a cui la scrittrice aveva probabilmente attinto usando i più importanti manuali di mitologia del suo tempo. La fonte primaria del racconto di Kaschnitz è sicuramente il libro VI dell’Iliade (154-205), da cui sono ripresi gli eventi principali e la struttura della storia. Come in Omero, Bellerofonte viene presentato come giovane di grande bellezza, discendente dalla stirpe divina di Eolo ma, a differenza del testo iliadico, in cui dopo questa breve introduzione si passa subito a raccontare del fallito tentativo di seduzione di Antea e della conseguente cacciata da Argo, qui viene invece spiegato l’antefatto che ha portato Bellerofonte in questo luogo. Rifacendosi alla versione di Apollodoro (Bibl. II, 3,1), Kaschnitz racconta che il giovane era fuggito dalla città natale, Corinto, per sottrarsi alle conseguenze dell’omicidio accidentale del proprio fratello, andando a cercare poi protezione presso la corte di Preto, re di Argo. Ovviamente solo nella riscrittura si indugia sulla descrizione dell’effetto psicologico di tale evento sfortunato sulla psiche del protagonista: «Questo misfatto gravò anche sul resto della sua vita come un’ombra, che nemmeno tutta la luce della grazia divina sarebbe riuscita a cancellare»6. Fin da subito Kaschnitz mostra un interesse tutto moderno per lo spazio insondabile della mente umana. Diversamente dagli dèi, che sono pura luce, l’uomo ha dentro di sé anche degli spazi d’ombra. Bellerofonte viene descritto come un ragazzo sensibile, incline alla Sehnsucht, con alle spalle un passato di dolore e di perdita. Come nell’Iliade, all’accoglienza nella dimora di Preto segue l’episodio del tentativo di seduzione di Antea, che ci viene presentato qui in una maniera del tutto originale. In Omero abbiamo un narratore che si concentra sui fatti, parlandoci poco o nulla delle emozioni che animano Antea e Preto. La regina, spinta da un forte desiderio carnale per il giovane, ha tentato di sedurlo senza successo, per poi calunniarlo di fronte al marito come forma di rivalsa. Il re reagisce a questa notizia con collera; ciononostante, prende la decisione di non uccidere Bellerofonte, perché ciò comporterebbe una violazione delle regole di ospitalità imposte dalla xenia e sarebbe pertanto un atto empio. Nella narrazione iliadica i due personaggi rappresentano essenzialmente archetipi, la cui funzione nel testo è quella di fornire un pretesto allo sviluppo della vicenda con i tratti tipici del racconto folklorico (motivo definito, con allusione all’episodio biblico di Genesi 39, della ‘moglie di Potiphar’). D’altro canto, è proprio in tale universalità che risiede la forza evocativa del mito. Kaschnitz compie una scelta diversa e mette al centro della narrazione l’interiorità dei personaggi. Di Antea, Preto e Iobate la voce narrante descrive pensieri e sentimenti, caratterizzando in tal modo i personaggi in modo più marcato. Di Antea, si dice: «Pensando di essere l’oggetto di tutti i suoi pensieri e desideri, si accese lei stessa della passione che gli attribuiva, illudendosi così di poter ringiovanire nel fuoco della giovinezza e dimenticare le proprie esperienze nella pura forza dell’innocenza»7. Le dinamiche psicologiche che Kaschnitz delinea per motivare il comportamento della regina si possono inquadrare in una griglia interpretativa di stampo freudiano. Secondo Freud, l’Io stabilisce dei “meccanismi di difesa” per proteggersi dagli impulsi a cui è soggetto e che contrastano col Super-Io, trasformandoli in modo da renderli conformi alle norme sociali. Tra i vari possibili meccanismi di difesa identificati da Freud, a noi interessano quelli della repressione e della proiezione, che vediamo in azione nel rapporto di Antea con Bellerofonte. Antea prova attrazione sessuale per il giovane, ma, costretta a reprimere questo impulso perché lui, in modo conforme alle norme sociali, l’ha respinta, non lo cancella del tutto, ma lo proietta su Bellerofonte. La stessa esperienza psichica si applica anche ai sentimenti negativi che scaturiscono dal rifiuto: colei che insidia il giovane si descriverà come la vittima di una violenza:

[…] l’amor proprio trasformò ai suoi occhi il fanciullo in un aggressore della sua virtù, e lei stessa nella custode insidiata del proprio onore e della propria felicità; le mani vogliose di Bellerofonte le avevano strappato le vesti e, nel tentativo frettoloso di difendersi, le guance le si erano arrossate e scompigliati i capelli8.

Inoltre, il comportamento di Antea non viene presentato come dettato solo dal desiderio erotico: al contrario, dietro ad esso si celano la nostalgia per la giovinezza perduta e l’illusione di poterla rivivere grazie all’intimo contatto con la giovinezza di un’altra persona. Anche la reazione del protagonista è delineata in una luce diversa: in Omero egli non cede alla tentazione della regina perché guidato da un alto senso dell’onore, qui invece è l’istinto a giocare un ruolo determinante. Nel momento decisivo dell’azione Bellerofonte prova un sentimento di orrore perché scorge in Antea una persona diversa, “trasformata”, una figura con un atteggiamento non più materno e rassicurante ma sessualmente aggressivo. In più, non avendo fatto ancora i conti con la propria sessualità, gli sfugge il senso di quella situazione.  Per quanto invece riguarda il personaggio di Preto, sono evidenti le differenze tra la sua reazione di fronte all’accusa mossa da Antea nell’Iliade e nel Bellerofonte. In Omero Preto, in preda all’ira e istigato da una maledizione della moglie, vorrebbe uccidere Bellerofonte, ma si trattiene perché sa che altrimenti violerebbe i vincoli imposti dalla xenia, offendendo così Zeus, che nel mondo antico proteggeva i viaggiatori e vendicava coloro che si facevano scudo della ritualità dell’amicizia ospitale. Il conflitto tra l’imperativo della vendetta e quello della xenia si risolve solo nel rispetto del sacro timore degli dèi. Kaschnitz nel Bellerofonte prende invece un’altra direzione:

Preto non si mostrò né troppo meravigliato né oltremodo sconvolto. Prestò fede alle parole di Antea, ma era un uomo e non gli era estranea la veemenza repentina dei desideri maschili, proprio come conosceva il sorriso e il gioco di sguardi di Antea, il cui unico scopo era quello di risvegliare i desideri maschili. Amava poi il ragazzo straniero e gli faceva anzi quasi piacere che i suoi primi afflati di desiderio si fossero spinti così in alto e che egli li esprimesse in modo così energico ed esigente9.

Qui la psicologia di Preto non segue più lo schematismo narrativo dell’epica arcaica: l’affetto provato per il giovane e una certa solidarietà di genere diventano elementi decisivi. Da notare, inoltre, che le parole di Preto tradiscono un maschilismo di fondo, visto che, di fronte a quello che potrebbe essere stato davvero uno stupro, egli reagisce con superficialità, e minimizza l’accaduto. Pertanto, l’azione di demandare al suocero Iobate il compito di uccidere Bellerofonte non si configura più come soluzione legata ad un vincolo sacrale, ma come risposta a un’aspettativa sociale emotivamente problematica. L’ultimo personaggio secondario di una certa importanza, nel mito di Bellerofonte, è proprio il re asiatico Iobate. In Omero questi si trova, come Preto, a dover agire tra il rispetto della xenia e la necessità della vendetta, e cerca di risolvere questo conflitto indirettamente, inviando il giovane a combattere contro i mostri e i nemici del regno. Di fronte alle vittorie riportate dall’eroe e al fallimento dell’agguato teso a Bellerofonte da alcuni suoi guerrieri, Iobate sarà poi costretto a riconoscere che il favore divino arride al giovane e di conseguenza ad abbandonare ogni intenzione malevola per rispettare il volere dei celesti. Diversamente, per Kaschnitz la decisione di mandare il protagonista ad affrontare vari pericoli appare, proprio come nel caso di Preto, la risposta ad un vincolo sociale che non viene del tutto eluso ma demandato al destino, così preservando almeno l’apparenza del recente legame affettivo. Al ritorno di Bellerofonte dalle imprese gloriose, lo Iobate di Kaschnitz reagisce come il suo corrispettivo antico, e cioè inviando degli uomini a tendergli un agguato; questo gesto è qui però dettato da un sentimento nuovo, la gelosia:

Le notizie delle imprese liberatrici di Bellerofonte lo hanno spaventato, perché ora è diventato troppo potente per lui, e sono troppo sentiti l’amore e gli onori che già il popolo gli riserva ovunque. Sembra quasi che l’impresa salvifica conti più della dignità del lignaggio, la giovinezza più della vecchiaia; e così Iobate inizia a vedere in Bellerofonte il proprio rivale10.

Nel primo capitolo di Mimesis, Erich Auerbach, confrontando i diversi modi di narrare tipici della Bibbia e dell’Iliade, considera incidentalmente anche il tema della gelosia. Secondo Auerbach la vita quotidiana dei personaggi veterotestamentari è avvelenata da questo sentimento doloroso, mentre nel mondo omerico «occorrevano ragioni solide e chiare perché nascessero inimicizie e conflitti»11. In effetti, nel Bellerofonte la figura di Iobate, con la gelosia che la caratterizza, ricorda nei tratti quella di un personaggio biblico come Saul. Va tenuto infatti presente che, pur essendo i Griechische Mythen dedicati a figure della mitologia greca, non mancano riferimenti a quella nordica o biblica12. In questo racconto possiamo trovare diversi elementi di ispirazione veterotestamentaria, in forma più o meno esplicita: Kaschnitz parla per esempio di una “lettera di Uria” («Uriasbrief»), così riconducendo al modello canonico rappresentato dal testo biblico (II Sam. 11) un motivo folklorico già presente in Omero, di generica derivazione semitico-orientale; inoltre abbiamo evidenti analogie tra alcuni personaggi del Bellerofonte e i corrispettivi biblici. Come il personaggio di Iobate, il re d’Israele Saul sviluppa nei confronti di Davide un’invidia profonda, perché sente che il proprio potere di capo anziano è minacciato dal successo del giovane in battaglia e presso il popolo. Ma se la gelosia di Saul si inasprisce, man mano che prende consapevolezza che Davide è eletto da Dio, quella di Iobate lascia il posto a un “timore reverenziale”, quando egli capisce che Bellerofonte è amato dagli dèi. Si può osservare anche una certa somiglianza tra il personaggio di Davide e quello di Bellerofonte: entrambi sono infatti “eletti”, da Jahvé o genericamente dagli dèi, e la loro irresistibile ascesa è favorita dall’alto. Mentre però nella Bibbia il narratore non contrappone alla paura di Saul un chiaro desiderio di impossessarsi del regno da parte di Davide, nel Bellerofonte invece tale desiderio traspare da ciò che la voce narrante riferisce degli intimi pensieri dell’eroe:

Allo stesso tempo, però, cominciarono a risvegliarsi in lui una certa ostinazione e rabbia, il desiderio di mettere radici, di esercitare il potere e stabilire una corte, di avere diritto a uno di quei luoghi che ogni volta aveva dovuto abbandonare. Lo allettava l’idea di rimanere qui in Licia, piuttosto che ad Argo, e di essere, come richiedeva il momento, coltivatore di una terra fertile o condottiero di schiere valorose13.

Il fatto che Bellerofonte voglia sposare la figlia di Iobate, Filonoe, matrimonio che in Omero era semplicemente una delle concessioni del re di Licia quando ne riconosce l’eccellenza e la statura eroica, sembra confermare ulteriormente questa ipotesi.

Ritornando ad analizzare lo sviluppo narrativo del Bellerofonte, possiamo osservare come, poco più avanti, l’autrice abbandoni momentaneamente il modello omerico per fare invece riferimento ad un’altra versione del mito, riferita da Pindaro nella Olimpica XIII (47-92). La transizione è segnalata abbastanza chiaramente: «Si mise quindi in viaggio e, come se dovesse acquisire la forza necessaria dalla terra natia, lo ritroviamo trasportato improvvisamente, come per magia, a Corinto»14. In questo passaggio, il primo inciso si configura come un tentativo dell’autrice di raccordare le due versioni del mito tra loro, presentando un quadro logicamente coerente dello sviluppo della storia. Allo stesso tempo, il riferimento alla versione pindarica è indispensabile per introdurre nella narrazione un elemento che era completamente assente nell’Iliade, ovvero Pegaso. Riguardo all’episodio del cavallo alato, benché la struttura del racconto sia simile a quella dell’Olimpica, non mancano neppure qui alcune importanti innovazioni. Colpisce particolarmente l’assenza di mediazione tra la sfera umana e quella divina; se infatti in Pindaro, dopo il primo fallito tentativo di domare il cavallo, Bellerofonte chiede aiuto all’indovino Poliido, il quale gli consiglia di dormire sull’ara della dea, qui invece l’interazione tra Bellerofonte e Atena avviene in modo più diretto, senza intermediari. La natura del sogno dell’eroe rispecchia appieno la concezione greca secondo cui l’attività onirica era una visione “esterna”, indotta dalla divinità spesso allo scopo di incoraggiare il sognatore a compiere un’azione15: «Atena gli appare e lo apostrofa come re e discendente di Eolo, obbligandolo così un’impresa straordinaria, e dandogli al contempo in mano il mezzo per compierla, la briglia d’oro»16. Ma se in Pindaro alla cattura di Pegaso segue un elaborato rito di ringraziamento ai celesti, nel Bellerofonte qualunque riferimento a tale cerimonia è assente. Kaschnitz vuole mettere al centro di questa conquista l’azione umana: «Ma la storia di Bellerofonte non riguarda solo il primo addomesticamento di un cavallo, ma rappresenta anche l’inizio del dominio dell’uomo sulle forze oscure della natura»17. Pegaso, in quanto frutto dell’unione di Medusa e Poseidone, è espressione della forza primordiale e violenta della natura. Pertanto, l’addomesticamento dell’animale diventa manifestazione concreta di quella che Kaschnitz chiama, nel Vorwort alla raccolta, la «Befreiung des Menschengeistes von der Urnatur»18. La forza del cavallo viene così piegata alla volontà umana, che può adesso usarla per i suoi scopi. L’idea che l’uomo si relazioni alla natura con uno sguardo da dominatore viene sottolineata nel testo tedesco dall’anafora del verbo beherrscht: «wer ihn beherrscht, der beherrscht das Reich der Lüfte und Wolken…»19. Immediatamente dopo si allude a un altro possibile significato simbolico della figura del cavallo alato: «Si è vista nella figura di Pegaso la fantasia sfrenata, addirittura la forza poetica che si innalza sopra le cose terrene»20.  Pegaso è ricordato infatti fin dall’antichità non solo in relazione a Bellerofonte, ma anche come simbolo della creatività e della poesia, tramite l’associazione con la fonte Ippocrene, le cui acque, secondo il mito, sgorgarono dal terreno colpito dal suo zoccolo (Pausania, Guida della Grecia, IX, 31,3). Questa sorgente era diventata simbolo dell’arte poetica perché la leggenda voleva che le Muse si incontrassero qui prima di celebrare gli dèi con il canto (Teogonia, 1-10). Come il cavallo, grazie all’ausilio delle ali, può innalzarsi oltre gli ostacoli naturali, allo stesso modo lo spirito dell’artista, guidato dall’immaginazione e dalla forza poetica, riesce ad elevarsi al di sopra del contingente. Nel contesto di questa vicenda, però, Pegaso si configura innanzitutto come simbolo generale del favore divino. Il rapporto fra l’eroe e il cavallo appare fin da subito come un legame di reciprocità, che contribuisce a plasmare il carattere di Bellerofonte attraverso l’autodisciplina necessaria per dominare il destriero.

Riallacciandosi al racconto omerico, il testo presenta poi i successi dell’eroe contro la Chimera, i Solimi e le Amazzoni, che minacciano il regno di Iobate.  Dopo il fallito tentativo da parte del re asiatico di uccidere il protagonista, che, come abbiamo visto, assume qui tutt’altro significato rispetto a quello del corrispondente episodio iliadico, la storia procede seguendo la tradizione omerica: Bellerofonte sposa Filonoe, da cui avrà tre figli, e si stabilisce in Licia per vivere in una bella proprietà con campi e vigneti. Ancora sulla scia di Omero, il racconto non termina però con l’irresistibile ascesa dell’eroe, ma con la sua fine tragica. La parte conclusiva del Bellerofonte è introdotta da un interrogativo sulla natura del rapporto fra quel “turbamento”, una forma di follia o di malinconia, a cui Omero aveva accennato nell’Iliade senza però esplicitarne l’origine, e una qualche punizione divina. Oltre a connettere questi due elementi, Kaschnitz propone due opzioni per colmare la lacuna omerica: il turbamento potrebbe essere stato conseguenza del giudizio dei numi, o potrebbe esserne stato invece la causa. Partendo da questa considerazione viene sviluppato il finale della storia, che vede l’eroe macchiarsi di empietà nel tentativo di superare il limite che separa l’umano e il divino:

L’antico mito racconta che Bellerofonte, giunto all’apice della sua fortuna, spronato da superbia e impulso vitale, sia montato in groppa a Pegaso per salire verso il cielo e prendere al tavolo degli dèi quel posto che credeva gli spettasse di diritto21.

Kaschnitz si rifà qui alla Istmica VII di Pindaro (43-48), secondo cui Bellerofonte, accecato dalla propria fortuna e credendo di aver diritto allo status di divinità, tenta una folle scalata al cielo in groppa a Pegaso, finendo però per precipitare a terra, disarcionato dalla sua stessa cavalcatura per volere degli dèi. La fine di Bellerofonte viene presentata come l’inevitabile conseguenza di un atto di hybris, colpa tipicamente eroica. Un discorso a parte va fatto per la caratterizzazione della località in cui cade l’eroe, definita con l’espressione «das Feld des Irrens», locuzione che sarà stata sicuramente suggerita anche dalla lettura del manuale mitografico Griechische Mythologie di L. Preller22: «einsam irrt er umher auf dem Felde der Irren […] Jenes Feld der Irren war ohne Zweifel ein mythischer Begriff». Questo elemento, di chiara derivazione omerica, riallaccia la fine della vicenda alla versione del mito presentata nell’Iliade, che vede Bellerofonte vagare in solitudine per la pianura Alea. Per spiegare i motivi della caduta, Kaschnitz si distacca però dalla versione di Pindaro («die alte Sage erzählt»), proponendo un’interpretazione che, dal suo punto di vista attento alla psicologia del personaggio, può spiegare meglio la vicenda («aber es mag auch sein»):

Ma può anche essere che, come nella versione di Euripide, gli eventi si siano svolti in un altro ordine, e che la cavalcata tra le nuvole di Bellerofonte indicasse sì un’empietà, ma di altra natura. Perchè forse Bellerofonte aveva già oltrepassato l’apice della sua fortuna terrena quando volle salire agli dèi23.

Per spiegare il significato del gesto dell’eroe la scrittrice prende ispirazione dalla tragedia di Euripide Bellerofonte, che vedeva il protagonista intraprendere un “folle volo” in nome di quel bisogno umano di trovare risposta all’interrogativo etico sull’esistenza degli dèi. Kaschnitz non aveva letto direttamente l’opera di Euripide, giunta solo in forma frammentaria, ma si era rifatta al resoconto della vicenda dei manuali mitografici, in particolare Preller, che avrà consultato anche in questo caso, considerando le numerose coincidenze e le analoghe riflessioni sulle idee religiose di colpa e punizione. L’analisi della tragedia data da Preller ha offerto a Kaschnitz lo spunto per attribuire a Euripide l’idea di «arroganza mista a stanchezza della vita e sete di conoscenza che conosciamo da Faust e Byron»24, un’interpretazione romantica, che non ha niente a che vedere con il dramma antico.

Nel suo Bellerofonte Kaschnitz sviluppa in modo originale e indipendente la parte conclusiva della storia, ricostruendo il percorso psicologico del protagonista, la sua fine tragica, e analizzando le cause profonde che l’hanno portato a compiere l’atto di hybris. Tutto sembra avere inizio con la morte dei figli, che mina la certezza del protagonista di essere benvoluto dagli dèi. Nel manuale di Preller, la versione euripidea del mito di Bellerofonte presentava la scomparsa dei figli come importante elemento nello sviluppo tragico della vicenda: «Nachdem ihm mitten im höchsten Glücke seien Kinder gestorben sind, wird ihm Trauer und Einsamkeit zu einer Schule des Zweifels und des Glaubens»25. Bellerofonte inizia a guardare alla realtà non più con occhio da dominatore ma da vittima, temendo il futuro anziché riuscire a prevederne il corso e a difendersi dalle sue insidie. L’elemento oscuro, la malinconia, inizia a infiltrarsi sempre di più nel suo cuore. Mentre Omero vedeva nell’odio divino la causa scatenante del comportamento disforico di Bellerofonte, che poi gli scritti medici ricondurranno ai sintomi di una malattia dovuta all’eccesso di bile nera (melancholia da melaíne cholé)26, Kaschnitz ce ne fornisce invece le motivazioni interiori: «Nelle notti insonni Bellerofonte vide morto anche l’ultimo dei figli, si vide abbandonato, senza prole, vecchio e incapace di difendersi dalla distruzione dell’opera di tutta una vita, che già gli sembrava avviata»27. La descrizione della disgregazione psicologica di Bellerofonte è quanto mai penetrante: smarrire la fiducia nella benevolenza degli dèi lo porta a vedere ogni ostacolo come l’inizio della distruzione dell’intera opera della sua vita. La paura di perdere i figli, che più di ogni altra cosa simboleggiano tale opera, è in questo senso paradigmatica. Intravediamo in questo primo passaggio la presa di coscienza del passare del tempo e di come esso corroda inesorabilmente le conquiste dell’uomo insieme con la sua stessa esistenza. Mettendo in evidenza tale sensazione, Kaschnitz adotta una prospettiva del tutto sconosciuta al mondo antico, quando la dimensione del tempo aveva un valore oggettivo e non se ne distingueva la relatività. Tormentato nottetempo dal pensiero di una prossima rovina, Bellerofonte cerca conforto nella compagnia di Pegaso, protagonista insieme a lui delle imprese passate. Questa situazione ricorda molto quella vissuta da un altro grande personaggio dei Griechische Mythen, Giasone, la cui storia viene narrata da Kaschnitz nel racconto Die Nacht der Argo28. Qui Giasone è ormai vecchio, cerca scampo dall’insonnia notturna andando a rifugiarsi sotto lo scafo della nave Argo, a bordo della quale egli aveva trascorso gli anni della giovinezza eroica, ma che ormai è ridotta a un relitto. Ma a differenza della nave Argo, che, proprio come l’eroe, ha subito l’azione del tempo, qui il cavallo Pegaso in quanto essere divino non ha minimamente cambiato aspetto.

In una seconda fase il pessimismo di Bellerofonte passa da un piano individuale ad uno esistenziale: «E lentamente si risvegliava in lui il terribile dubbio sulla sua vittoria e si domandava se tutte le paure e gli orrori degli uomini non fossero inestirpabili, se non minacciassero di rinnovarsi in un’eterna rinascita»29. Dopo aver temuto che nuove disgrazie incombano su di lui, Bellerofonte inizia a temere che le sue vittorie sui mostri siano solo un’illusione e che il male in sé sia una forza da cui l’uomo non potrà mai davvero liberarsi definitivamente. La riflessione del protagonista ben si riallaccia alle considerazioni fatte da Kaschnitz nel Vorwort al libro, in cui si spiegava come l’obiettivo comune a tutti i racconti sia quello di raffigurare il percorso di affrancamento compiuto dallo spirito umano, attraverso la “via della ragione”, dalla Urnatur; ma allo stesso tempo la necessità di interrogarsi sui motivi che spingono l’uomo a cedere ancora al richiamo regressivo del “luogo delle origini”, dominato da forze irrazionali e violente, e a compiere di conseguenza il male30. La mitologia diventa il banco di prova di questo scontro tra oscurità e luce, il cui esito, come nel caso della storia di Bellerofonte, può essere sempre ribaltato31. Le figure della Chimera, dei Solimi e delle Amazzoni possono essere interpretate nel racconto come simbolo trasparente della componente primordiale e violenta che risiede dentro l’individuo. Il sentimento di impotenza e angoscia provato da Bellerofonte di fronte al mistero del male doveva in qualche misura essere condiviso dalla scrittrice, che elaborò la raccolta nel periodo più buio della storia europea, quello della seconda guerra mondiale e del regime del Terzo Reich.

In preda ad una sempre più profonda angoscia esistenziale, Bellerofonte decide di montare per l’ultima volta Pegaso e tentare la scalata al cielo. Kaschnitz descrive con estrema chiarezza il motivo ultimo che spinge l’eroe all’azione fatale: «Voleva salire da loro, voleva vederli, e constatare ciò che fin troppo spesso gli era sembrata una pia leggenda, sulla quale gli eventi del mondo reale si stagliavano come un caos di suoni striduli su una melodia soave e sublime»32. Bellerofonte vuole fare esperienza diretta del divino, perché aspira ad ottenere una chiave interpretativa della realtà che gli permetta di risolvere quelle dissonanze apparentemente ineliminabili che dominano l’esistenza degli uomini, arrivando così a scorgere la segreta armonia che lega il cielo e la terra. Ma gli dèi non possono tollerare il suo desiderio di oltrepassare i limiti imposti alla conoscenza umana; così, proprio come nella versione della tragedia di Euripide, che si può ricostruire per grandi linee, fanno disarcionare Bellerofonte da Pegaso. Dopo la descrizione della caduta dell’eroe, segue inaspettatamente un ulteriore sviluppo della vicenda, del tutto originale.

Attraverso l’esperienza dolorosa della realtà, Bellerofonte ha raggiunto un grado di consapevolezza maggiore rispetto agli altri uomini, che gli rende impossibile reintegrarsi nella propria comunità, dove aveva conosciuto l’illusione del benessere e della felicità; così lascia il palazzo e si dedica a una vita da eremita. Egli passa gli ultimi anni fuori dal mondo, ma viene occasionalmente accolto da contadini e pastori cui fa dono di un non meglio chiarito “consiglio”. Emerge da questo finale una filosofia laica, basata sull’idea di fratellanza umana, di catena sociale che fa fronte all’imperscrutabilità della natura, alla cui crudeltà fredda e irrazionale il pensiero mitologico antico aveva dato la concretezza di un mondo divino inaccessibile alla conoscenza o, quanto meno, incostante e imprevedibile. La scelta di raccontare la parte conclusiva della vita di Bellerofonte dimostra la volontà di demistificare le figure eroiche, per mostrarle ora sotto una luce più veritiera e umana. Questa operazione risulta in netto contrasto con l’uso strumentale dell’eredità greca diffuso nel contesto della propaganda del Terzo Reich. Nel tentativo di costruire una mitologia della razza ariana, infatti, l’ideologia nazista si appropriò, sistematicamente e anche in aperto contrasto con le evidenze storiche, di molte grandi civiltà del mondo antico, e in particolare di quella greco-romana. Tale appropriazione era strumentale alla definizione di un nuovo modello di comportamento e di virtù, dichiaratamente ispirato agli eroi della mitologia greca e in grado di plasmare la Gemeinschaft su cui il Reich si fondava33. Se i personaggi del mito sono presentati dalla propaganda nazista come figure idealtipiche e bidimensionali, assimilabili all’Übermensch nietzschiano, nel caratterizzare i personaggi dei suoi racconti Kaschnitz compie un’operazione di senso opposto, quasi un piccolo atto di sovversione letteraria in sintonia con altri poeti e scrittori europei del primo Novecento (si pensi ai Poemi conviviali di Pascoli, o ai Dialoghi con Leucò di Pavese): in Kaschnitz l’eroe rivela nell’ultima parte del racconto tutta la sua fragilità di mortale, logorato esteriormente ma anche interiormente dallo scorrere del tempo. Egli si rivolge alla propria interiorità abbandonando gli impegni del mondo, e diviene così l’immagine della precarietà di ogni azione e conquista umana di fronte all’operare misterioso della natura.

Bibliografia

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Wallrath-Janssen Anne (2007), Der Verlag H. Goverts im Dritten Reich, München, K. G. Saur.

Note

  1. Non ne è stata mai pubblicata una traduzione italiana; la traduzione cui faccio riferimento è quella che ho fatto per la mia tesi triennale. Il testo originale tedesco verrà invece riportato, di volta in volta, in nota (Kaschnitz 1946: 67-79).
  2. Marie Luise Kaschnitz nasce il 31 gennaio 1901 a Karlsruhe, città del Baden-Württemberg, dalla nobile famiglia von Holzig-Berstett. Cresciuta tra Berlino e Potsdam, dopo la Prima Guerra Mondiale si trasferisce con i genitori nella tenuta di famiglia a Bollschweil. Nel 1921 inizia il suo apprendistato come libraia a Weimar per poi lavorare in una casa editrice a Monaco fino al 1924, dove conosce il futuro marito, l’archeologo austriaco Guido von Kaschnitz Weinberg. Dopo poco però lui si trasferisce per lavoro a Roma e così lei decide di raggiungerlo nella capitale italiana, iniziando a lavorare prima in una libreria di antiquariato e poi come borsista presso il Deutsches Archaeologisches Institut, con cui inizierà poi a collaborare Guido. Nel 1925 i due si sposano e passano i primi sette anni di matrimonio a Roma. In questo periodo, influenzata anche dal marito e dai suoi studi, Kaschnitz inizia a coltivare un profondo interesse per il mondo antico. Nel 1932 i coniugi Kaschnitz tornano in Germania perchè Guido ha ottenuto una cattedra di archeologia. Sempre per il lavoro di lui si trasferiscono nel 1937 a Marburg e poi nel 1941 a Francoforte, città in cui passerà la maggior parte della vita. Questi sono però anche gli anni della Germania nazista, e Kaschnitz trova rifugio nella scrittura, dedicandosi soprattutto a poesie di stampo classico e opere legate alla mitologia (Ellissa e Griechische Mythen). La consapevolezza di non aver fatto attivamente niente per opporsi al regime la porta, nel 1946, a pubblicare il saggio Von der Schuld, in cui affronta con onestà intellettuale gli errori del passato, mettendo al centro il tema del senso di colpa, che lei stessa ha intensamente provato. Con la fine della guerra si riscontra un profondo cambiamento nella produzione letteraria della scrittrice, che sente ora il bisogno di prendere le distanze dal mondo antico per confrontarsi con la realtà contemporanea. Nei primi anni Cinquanta scrive diverse raccolte poetiche, genere che predilige, saggi e radiodrammi, raggiungendo l’apice della carriera. Nel 1955 le viene assegnato il prestigioso Premio Georg Büchner. Successivamente, si dedica soprattutto alla pubblicazione dei propri scritti e a conferenze universitarie. Nel 1974 muore a causa di una polmonite.
  3. Kaschnitz 1946:175-176.
  4. Galvan 2007: 85.
  5. Kaschnitz 1946: 175.
  6. «Lag solche Freveltat auch über seinem ferneren Leben wie ein Schatten, den alles Gnadenlicht der Götter nicht aufzuzehren vermochte» (Kaschnitz 1946: 67).
  7. «Sie glaubte sich das Ziel all seiner Gedanken und Wünsche, und von solcher angedichteter Leidenschaft selbst zur Leidenschaft entfacht, wartete sie darauf, sich in dem Feuer der Jugend selbst zu verjüngen und in der reinen Kraft der Unschuld ihre Erfahrungen zu vergessen» (Kaschnitz 1946: 68).
  8. «[…] und aus der Verwandlungskraft der Eigenliebe heraus wurde der Knabe zum Angreifer auf ihre Tugend, sie selbst zur verfolgten Hüterin ihrer Ehre und ihres Glücks. Des Bellerophontes gierige Hände hatten ihr die Kleider aufgerissen, von der hastigen Abwehr waren ihre Wangen gerötet, ihre Locken verwirrt» (Kaschnitz 1946: 68).
  9. «Proitos zeigte sich weder übermäßig erstaunt, noch allzu entsetzt. Er schenkte Anteias Worten Glauben, aber er war ein Mann und die jähen Aufwallungen männlicher Begierden waren ihm so wenig fremd wie Anteias Lächeln und Augenspiel, das nur darauf abzielte, die Wünsche der Männer zu erwecken. Er liebte den fremden Knaben, fast freute es ihn, daß jener seine ersten Wünsche so hoch erhob und ihnen so nachdrücklich fordernd Ausdruck verlieh» (Kaschnitz 1946: 68).
  10. «Die Kunde von den erlösenden Taten des Bellerophontes hat ihn erschreckt, zu mächtig ist ihm nun jener geworden, zu innig wird er schon überall vom Volke geliebt und verehrt. Schon scheint die rettende Tat mehr zu gelten als die angestammte Würde, die Jugend mehr als das Alter, und Jobates beginnt in Bellerophontes den Nebenbuhler zu sehen» (Kaschnitz 1946: 74).
  11. Auerbach 1956: 27.
  12. Cometa 2001: 2.
  13. «Aber es begann auch etwas in ihm aufzuwachen, Trotz und Zorn, eine Sehnsucht nach Seßhaftigkeit und Herrschermacht, Burg und Hof und nach einem Anrecht an eine dieser Stätten, die er immer wieder verlassen mußte. Mehr noch als in Argos verlockte es ihn, hier in Lykien zu bleiben, ein Landwirt auf reichem Boden, ein Heerführer tapferer Scharen, wie es die Zeit gebot» (Kaschnitz 1946: 71).
  14. «[…] er machte sich auf den Weg, und als müsse er sich auf der heimischen Erde die nötige Kraft gewinnen, finden wir ihn wie durch Zauberei mit einemmal zurückversetzt nach Korinth» (Kaschnitz 1946: 72).
  15. D’Agostino 2008: 13.
  16. «Athena erscheint ihm, sie ruft ihn auf als einen König und des Aeolus Sproß, und wie sie ihn damit verpflichtet zu außergewöhnlicher Tat, legt sie ihm mit dem goldenen Zaum auch das Mittel dazu in die Hand» (Kaschnitz 1946: 72).
  17. «Aber nicht nur die erste Rossebändigung kommt in der Geschichte des Bellerophontes zum Ausdruck, sondern aller Beginn der Herrschaft des Menschen über die dumpfen Kräfte der Natur» (Kaschnitz 1946: 72).
  18. Kaschnitz 1946: 8.
  19. Kaschnitz 1946: 72.
  20. «Die schweifende Phantasie hat man im Pegasos erkannt, die Dichterkraft auch, die sich über das Irdische erhebt» (Kaschnitz 1946: 73).
  21. «Die alte Sage erzählt, daß Bellerophontes in den Tagen seines größten Glückes, von Hochmut und Lebenstrieb angestachelt, den Pegasos bestiegen habe, um aufzusteigen gen Himmel und am Tische der Götter den Platz einzunehmen, von dem er glaubte, daß er ihm gebührte […]» (Kaschnitz 1946: 76).
  22. Preller 1861: 87-88.
  23. «Aber es mag auch sein, daß, wie Euripides es darstellt, die Vorgänge sich in anderer Reihenfolge abgespielt haben und der Wolkenritt des Bellerophontes auch einen Frevel bedeutete, aber einen von anderer Art. Denn vielleicht hatte Bellerophontes, als er zu den Göttern aufsteigen wollte, den Höhepunkt seines irdischen Glückes schon überschritten» (Kaschnitz 1946: 76).
  24. Preller 1861: 88.
  25. Preller 1861: 88.
  26. Il tema della melancolia viene affrontato nel primo capitolo del Problema XXX, un testo di scuola aristotelica attribuito dalla tradizione allo stesso Aristotele, in cui Bellerofonte viene citato, insieme ad Aiace ed Eracle, come eroe afflitto da umor nero. Si veda il commento di B. Centrone, nell’edizione da lui curata di questa sezione, che contribuì a determinare la fortuna del testo pseudo-aristotelico nell’antichità proprio perché analizzava la melancolia «come affezione patologica e disposizione caratteriale suscettibile di provocare prestazioni fuori dal comune in vari ambiti del sapere», così associando genio e follia (Centrone 2018: 9). Nella nota al testo, a p. 56, si trovano i rinvii ai trattati medici che parlano delle caratteristiche di questa patologia: il trattato ippocratico De morbo sacro 12, dove si descrive la ricerca di luoghi solitari da parte del malato, quando avverte l’imminenza di un attacco del morbo e non vuole essere visto; Ippocrate, Epistole 12, dove la stessa tendenza dei melancolici a cercare luoghi deserti e rifuggire il contatto con gli altri uomini è paragonata a quella dei sapienti, che si dedicano allo studio e non vogliono essere turbati, preferendo invece la solitudine; lo scritto attribuito a Galeno, Introductio seu medicus 14.740-741, che probabilmente deriva dal testo del Problema XXX perché cita il passo omerico e il caso di Bellerofonte. Per altri riferimenti a Bellerofonte e al tema della melanconia cfr. Starobinski 2014.
  27. «In schlaflosen Nächten sah Bellerophontes auch das letzte der Kinder tot, sah sich zurückbleiben, kinderlos, alt, unfähig sich zu wehren gegen die Zerstörung seines Lebenswerkes, die sich schon anzubahnen schien» (Kaschnitz 1946: 76).
  28. Cfr. Mirto 2020.
  29. «Und langsam erwachte in ihm der furchtbare Zweifel an seinem Sieg und er fragte sich, ob nicht alle Ängste und Schrecken der Menschen unausrottbar seien, ob sie nicht in ewiger Wiedergeburt sich zu erneue drohten» (Kaschnitz 1946: 77).
  30. Mor 2017:18.
  31. Cometa 2001: 4.
  32. «Zu diesen wollte er aufsteigen, wollte sie sehen und wahrhaben, was ihm nun allzu oft erscheinen wollte wie eine fromme Sage, von der die Geschehnisse der wirklichen Welt abheben wie ein schrilles Chaos von Tönen von einer sanften und erhabenen Melodie» (Kaschnitz 1946: 78).
  33. Cfr. Chapoutot 2017.
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