Lux Æterna: aggressioni allo sguardo di Gaspar Noé

One day, soon probably, I’ll do a real documentary. But I know that if I do, I will use every single
gimmick, trick and tool of the cinematic language. All documentaries lie, all narrative movies lie,
but the way you get into documentary, you come with your preconceptions, and in a documentary
you’re asking people to be themselves, and then you can trick1.

Così il controverso regista Gaspar Noé, in un’intervista rilasciata a ottobre 2018 per Sight&Sound per parlare del suo (allora) ultimo film Climax, esprime la propria volontà di impegnarsi in un documentario di lunga durata2; Climax stesso doveva essere infatti, negli originari intenti dell’autore, un documentario sulla scena underground dei ballerini francesi. Ma, come si può leggere anche tra le righe nella citazione riportata («and then you can trick»), la propensione al documento e al cinema-verità di Noé è sempre “inquinata” da una tendenza alla messa in scena e all’artificio: come si avrà ulteriormente occasione di dimostrare questa commistione è fondante nel film successivo, Lux Æterna.

Anthony Vaccarello, direttore creativo di Yves Saint-Laurent, chiede a Gaspar Noé di realizzare un film per il suo progetto Self. Il regista raccoglie subito la proposta, data la possibilità non solo di riuscire a produrre un film in tempo per il Festival di Cannes 2019 ma anche di poter lavorare a un progetto ambizioso con le star Charlotte Gainsbourg e Beatrice Dalle (era dai primi anni 2000 che Noé non lavorava con “nomi conosciuti”) conservando la possibilità di sperimentare senza freni («I will use every single gimmick, trick and tool of the cinematic language»). È scritto infatti nell’introduzione al progetto3:

The intention of the project is to capture different aspects of the Saint Laurent personality, underlining the complexity of various individuals through the eyes of artists selected by Anthony Vaccarello. It represents the freedom of self-expression without censorship and conveys many different facets of the Saint Laurent attitude.

Pur attivo sin dagli anni ’80, Gaspar Noé è divenuto celebre solo negli ultimi venti anni come “enfant terrible” del cinema contemporaneo, grazie a lavori come Seul Contre Tous, Irreversible e Enter The Void, caratterizzati da una forte aggressività contenutistica e formale. Noé ha costruito attraverso questi film un’immagine autoriale molto forte, immagine con la quale sovente gioca per rendere ulteriormente provocatorie le proprie produzioni. Il suo cinema asservisce la violenza a una (orrorifica) funzione spettacolare, in grado di trascinare il pubblico alla visione per poi portarlo, attraverso un percorso di progressivo distacco dall’atrocità, verso considerazioni filosofiche “altre”. La violenza attrae e respinge allo stesso tempo: tanto più è estrema, tanto maggiore è la curiosità che suscita. Ciò che contraddistingue il cineasta è l’aver compreso questa potenzialità e averla sfruttata per inserire contenuti potenzialmente destabilizzanti in circuiti produttivi di ampio respiro: non a caso Noé stringe con i festival, in particolare con quello di Cannes, un rapporto privilegiato.

Il regista viene sovente inserito dalla critica nella corrente del cinéma du corps francese contemporaneo4. Tim Palmer conia questo termine, proprio all’interno di un libro su Irreversible, per poter categorizzare criticamente i nuovi fenomeni di “cinema estremo” che interessano la Francia tra gli ultimi anni ’90 e i primi del nuovo millennio. Sebbene questi film facciano della controversia uno dei propri punti cardine, l’etichetta “estremo” connota in senso peggiorativo queste produzioni, negando loro una qualsiasi valenza costruttiva e divergendo da una reale comprensione del fenomeno. Il cinéma du corps, sostiene Palmer, ha caratteri molto specifici:

  • È centrale l’esplorazione della violenza; dunque non solo la rappresentazione dell’atto violento in sé, ma anche delle conseguenze regressive che esso ha sui personaggi;
  • All’esplorazione della violenza si associa quella della sessualità, soprattutto nelle sue forme più condannabili;
  • La caratterizzazione dei personaggi passa attraverso le loro azioni, più che attraverso i (pochi) dialoghi; i personaggi sono spesso moralmente “grigi”, quando non completamente “neri”;
  • La struttura narrativa viene spesso complicata da anacronie, acronie o, ancor più spesso, da dilatazioni della durata; si fa uso anche di “stimoli diegetici”, come le luci stroboscopiche;
  • I corpi vengono resi in termini grotteschi, spesso disfunzionali, lacerati, mutilati o distaccati rispetto alla mente.

Tim Palmer inoltre si sofferma sull’importanza che il concetto di “eccezione culturale” ha all’interno dell’ecosistema dell’industria filmica francese nei primi anni Duemila: grazie a sovvenzioni statali ai giovani filmmaker da parte del CNC5 emergono molti giovani filmmaker pronti a competere con la Hollywood del terzo millennio. Con famelicità, infatti, le maestranze impegnate in questi film attingono a strumenti e pratiche dagli studios americani più all’avanguardia. Queste informazioni preliminari ci aiutano a meglio interpretare con maggiore precisione Lux Æterna: pur essendo passati vent’anni dai primi film del cinema dei corpi, permangono in molti autori francesi (basti pensare al recente Titane di Julia Ducornau) le tendenze sopracitate, Noé incluso.

Lux Æterna al microscopio: analisi del film

Lux Æterna si svolge sul set tormentato6 del “film nel film” Œuvre de Dieu, con attrice di punta Charlotte Gainsbourg e Beatrice Dalle alla regia. Gli attori interpretano loro stessi o qualcosa di decisamente vicino a loro stessi, sfumando ulteriormente confini tra fiction e documentario e tra personaggio, attore e figura divistica. Alcuni personaggi hanno ruoli già stabiliti, altri assumono ruoli scelti in corso d’opera; alcuni interpretano nel film lo stesso ruolo che hanno al di fuori dello schermo (Charlotte Gainsbourg e Maxime Ruiz), altri svolgono ruoli differenti, come Beatrice Dalle, che diventa regista, e Tom Kan, che da title designer diventa cameraman. Un dato su cui la critica di Gaspar Noé solitamente non si sofferma è che molte scelte artistiche dei suoi film nascono in corso d’opera, se non in sala montaggio: in questo caso lo split screen. La sperimentazione, e talora anche l’improvvisazione, connota la fase delle riprese, in cui agli attori viene data grande libertà; il montaggio dà prevalentemente corpo alla narrazione, mentre la sceneggiatura è appena abbozzata. Ed è grazie a questo (anche rischioso) metodo di lavoro che Noé riesce a conciliare in questo caso la costruzione di una narrazione finzionale sensata con elementi documentaristici.

Il film ha due preludi: uno tratto da Häxan (La stregoneria attraverso i secoli, 1922, diretto da Benjamin Christensen), l’altro dal Dies Irae (1943) di Carl Theodore Dreyer, al quale appartengono anche due delle citazioni nei cartigli che costellano il film. Nella prima sequenza appaiono strumenti di tortura usati negli interrogatori di presunte streghe, nella seconda vengono presentate scene del Dies Irae inframezzate da un cartiglio che spiega il “dietro le quinte” della scena del rogo di Marte7; in entrambi i casi Noé compie un’operazione di rimontaggio per “asservire” i due film alla creazione del proprio film. Entrambe le sequenze parallele/di commento hanno anche un fine anticipatorio: l’aneddoto del Dies Irae è prefigurazione del destino di Charlotte, che si divincola al palo del rogo mentre viene “aggredita” dalle luci e dal ronzio continuo del set fuori controllo; Häxan prelude a una caccia alle streghe più metaforica, ambientata in un Medioevo oscuro.

Tout à l’heure, vouse verrez des vieilles images du Moyen-Age8.

Il Medioevo di Häxan è stereotipico e ben poco filologico, un’epoca oscura dominata dal terrore in cui hanno luogo disumane cacce alle streghe, e ad esso ben si sposa il set di Œuvre de Dieu, che mescola al suo interno clichés e elementi del tutto anacronistici. Si può dire che il Medioevo, in Lux Æterna, sia più un’“epoca mentale” che reale. L’azione si svolge in un teatro di posa che include al suo interno ambienti eterogenei e spaziotemporalmente molto distanti, che vanno da un salotto contemporaneo illuminato da una fioca luce viola a un salotto invece più “all’antica” con un caminetto, a una sala autopsie9. Il set del “rogo medievale” è ancora più ambiguo: tre pali su tre cataste di legno finte e alcuni cespugli, il tutto di fronte a uno schermo circolare al led10. L’intero teatro di posa può essere considerato “teatro mentale”: ogni set si accorda alle emozioni e agli stati d’animo dei personaggi che fluttuano al proprio interno.

Dopo l’incipit citazionistico segue una “chiacchierata a due” di 12 minuti tra le due protagoniste, introdotta da due inquadrature che danno già prova della presenza di un “duplice sguardo”: una dall’alto su uno dei set del teatro di posa (una cucina), l’altra che ci mostra chi sta producendo la prima inquadratura, ovvero Tom Kan. Nel set del salotto “all’antica” Charlotte Gainsbourg e Beatrice Dalle dialogano sulla propria carriera, sulla religione e sulla loro vita sessuale; in particolare Dalle si dilunga sull’imbarazzo della propria esperienza “da strega” ne La visione del sabba (Marco Bellocchio, 1988) e Gainsbourg racconta un aneddoto imbarazzante di una (mancata) liaison con un ragazzo. Le due attrici si definiscono giocosamente “streghe”: gran parte della loro carriera e della loro immagine divistica si incentra sul tipo della donna fatale.

Quasi tutta la chiacchierata è ripresa da due punti di vista “collati” grazie allo split screen: è una soluzione mai tentata prima da Gaspar Noé, il quale decide nei primi giorni di ripresa di usarla per rendere meno monotona la “chiacchierata”. Già nelle prime due inquadrature si pone un problema di sguardo, in quanto a quello della camera di Tom Kan si affianca uno “sguardo secondo” barcollante, come se a produrlo fosse un altro essere umanoide. È uno sguardo extradiegetico a differenza del primo, ma non solo: esso è camaleontico, poiché emula lo sguardo della camera di Tom producendo delle inquadrature “umanoidi”, è multiplo, poiché capace di scindersi in più inquadrature con POV differenti, e di conseguenza anche ubiquo. Ogni inquadratura è separata dalla successiva da blackout cuts che danno, insieme ai bordi dell’immagine, un’ulteriore impressione di diapositiva, di immagine frammentata. L’effetto “quadro/diapositiva”, che fa uso di blackout cuts e bordi “limitanti”, era stata utilizzata solo in Love: in quel caso serviva a una maggiore resa proiettante del “tempo della memoria” del protagonista Murphy11, che era solito usare una macchina fotografica analogica.

Lo sguardo della macchina da presa è mutevole anche dal punto di vista del formato, che passa dal 4:3 dell’incipit, al 3:2 per i totali, al 2.35:1 per le sequenze in split screen. Dopo essere tornato al 3:2, esso si muove sul set insieme alle due attrici, seguendo Charlotte mentre viene importunata da Karl (l’attore Karl Glusman, che nel film svolge il ruolo di colorista) e Beatrice mentre chiacchiera con Félix (Félix Maritaud, attore nella vita reale e assistente alla regia nel film). Segue l’ennesimo blackout cut. Maxime, direttore della fotografia per Œuvre de Dieu, e Yannick, il produttore, parlano della scelta di Beatrice Dalle come regista e di come “eliminarla dal set”. Yannick, nel rassicurare Maxime, chiama il suo assistente Tom (Tom Kan, di cui si è già parlato), e gli chiede di filmare giorno e notte la regista per poterla cogliere in fallo e avere le prove per licenziarla. Per fargli capire l’importanza del proprio ruolo, cita la poesia Coscience di Victor Hugo, che Tom non conosce. «L’oeil était dans la tombe et regardait Caïn»12: è un riferimento all’occhio persecutore di Dio, che insegue Caino fino alla tomba. Maxime odia Beatrice in quanto non vede in lei un potenziale autoriale: quello che aleggia su Beatrice è dunque un giudizio divino figurato, il giudizio di artisti che portano con loro una tradizione di grandi maestri del cinema, esplicitato nelle minacciose didascalie epigrafiche.

Non appena Tom prende la camera a mano, lo sguardo si duplica ulteriormente: una delle parti dello split screen, quando iconizzata da un “REC”, è prodotta dalla videocamera di Tom. Lo sguardo della videocamera è interno alla narrazione e interagisce con gli attori, lì dove la fonte “principale”, ubiqua, è invisibile e può seguire le attrici senza disturbarle: ne dà prova la scena in cui Abbey (Abbey Lee, attrice) scopre di essere ripresa da Tom e chiude le tende, scandalizzata; la scena viene prodotta non dallo sguardo di Tom, ma da quello della fonte principale, che fissa indisturbato Abbey e le altre modelle. Un altro esempio si ha quando Beatrice aggredisce Tom: vediamo due punti di vista, quello di spalle di Beatrice e quello frontale prodotto dalla MDP13 di Tom, ma nella inquadratura a destra non si vede nessuna camera dietro Beatrice. Tom non sembra essere un buon pedinatore: spesso e volentieri il suo sguardo si perde sugli altri attori, oppure perde di vista Beatrice; questo dà vita, a un certo punto, a un “doppio inseguimento”, in cui Tom segue Beatrice mentre la fonte principale segue entrambi in split screen.

Come in Film di Samuel Beckett, la camera di Tom non può avvicinarsi troppo al volto dell’attrice inseguita, in questo caso per non essere fisicamente attaccata: è uno sguardo limitato e limitante. Un’altra possibilità della “visione sdoppiata” è la ripresa di due avvenimenti identici da due punti di vista differenti: uno intangibile, l’altro fin troppo presente e invadente (e danneggiabile: quando Beatrice colpisce la camera di Tom l’immagine “sgrana” per qualche secondo).

Lo split screen assume uno specifico valore narrativo: non solo incrementa la tensione sullo schermo, ma produce un’insistita simultaneità narrativa che caratterizza le ultime opere di Noé: come in Climax, lo spettatore è tenuto a prestare attenzione a più azioni o dialoghi simultanei. Sin da Seul Contre Tous, l’autore mostra una smaccata predilezione per le “interviste”: inquadrature di durata variabile in cui uno o due personaggi dialogano tra loro, colti in “tranches de vie” poco utili allo svolgimento del racconto e talora anche disconnessi rispetto ai temi conduttori del film. Questa soluzione, insieme allo split screen, amplifica un’impressione di caoticità ma dà anche più “realismo” e immediatezza alle scene.

Regna il disordine: Beatrice perde a più riprese la calma, anche a causa di Tom che la segue insistentemente con il suo camcorder, e finisce per inimicarsi quasi tutta la troupe, Karl (Glusman) importuna sia Charlotte che Abbey, un critico di L’Oeil du Cinéphile riempie tutti di domande14, Félix fatica a chiamare le comparse, ci sono problemi con lo schermo a LED15. Il set viene allestito, si scopre finalmente il titolo del film e, almeno approssimativamente, il contenuto della scena che si sta per girare. È lo strano rogo di tre “streghe” abbigliate Saint-Laurent, tutte con un paio di occhiali da sole indosso, che avviene di fronte a una folla inferocita (a sua volta in abiti contemporanei) e su uno sfondo smaccatamente finto con alcune nuvole minacciosamente rosse e delle fiammate irrealistiche. Charlotte è in ritardo: durante una chiamata con la babysitter della figlia scopre che i compagni di classe della piccola le hanno fatto del male. Lo split screen torna al 3:2 per due volte solo per concentrare l’attenzione narrativa su questa vicenda: se da un lato l’episodio della figlia maltrattata può essere messo in parallelo con il maltrattamento dell’attrice sul set di lì a venire, dall’altra queste due sequenze ristabiliscono la centralità di Charlotte nel racconto.

Una seconda citazione di Dreyer apre la sezione conclusiva del film: il regista è colui che, con la propria firma, rende un film un’opera d’arte. È un’ulteriore citazione almeno parzialmente ironica, dal momento in cui le scene successive vedono un improvviso rovesciamento di ruoli tra Beatrice e Maxime. Ai due sguardi sopracitati si aggiunge un terzo sguardo, di nuovo intradiegetico: è la pesante cinepresa di Maxime, che “aggredisce” dall’alto le streghe al rogo grazie ai movimenti del dolly su cui è posizionata. Anche lo sguardo di questa macchina è iconizzato. Le tre attrici (Charlotte, Abbey e Maia) vengono legate ai tre pali, iniziano le riprese. Maxime si rifiuta di obbedire allo “stop” di Beatrice, e in questo è il punto di rottura. Il quadro passa dal 3:2 al 2,35:1, senza split screen: non viene tagliato letteralmente nulla. Un’altra citazione, stavolta di Fassbinder, campeggia su uno sfondo di lampi rubicondi: quando la pressione è troppo forte, è scritto nel cartiglio, il regista diventa un dittatore.

Charlotte! Le fais pour Dieu ou pour moi?16

Le parole del DOP17 possono essere lette anche metacinematograficamente, in quanto a riprendere Charlotte sono due fonti diverse, delle quali una è del vero “dio del film”, lo sguardo del narratore/enunciatore; ma su questo ci si soffermerà in seguito. Il set viene invaso da accecanti luci stroboscopiche multicolori e da un forte ronzio intermittente: Maxime prende il definitivo controllo del set aggredendo audiovisivamente tutti i presenti. Il quadro si restringe su Charlotte, tornando al 3:2, per poi dividersi in tre: il trittico al cinema, sperimentato per la prima volta con il Polyvision di Napoleon (1927), è qui uno strumento asfissiante, che comprime le figure e crea quadretti statici, lì dove invece negli intenti di Gance il triplice schermo “aumentava” la potenza di visione. Invano Beatrice tenta di fermare Maxime, con il debole supporto di Yannick, che minaccia il licenziamento. Sui volti degli altri presenti si legge, più che sgomento, una forte curiosità. Le attrici “al rogo” vengono colte da un attacco di panico; in particolare Charlotte, che non riesce a differenza delle altre due attrici a slegarsi dal proprio palo. La disperazione diviene cieca rassegnazione: i membri della troupe, le cui reazioni erano registrate da ulteriori split screen o dalle loro voci off, scompaiono, lasciando il posto a Beatrice e Charlotte, confrontate da più campi/controcampi, che abbandonano ogni resistenza. Charlotte viene “mangiata” dalle luci intermittenti, in preda a quello che azzardatamente potrebbe essere definito un moto estatico. Segue ancora la croce del Dies Irae, avvolta dagli sgargianti flicker multicolor, poi i singolari titoli di coda su cui ci si soffermerà in seguito. Il film si chiude con una citazione di Buñuel: «Dieu merci je suis athée – Luis»18.

Conclusioni: Je est un autre

Sappiamo poco del film di cui Dalle è regista, fuorché, come sentiamo urlare da Maxime mentre Charlotte entra sul set della sala autoptica, che è un film “di poesia”19; verosimilmente, dal momento in cui la pira delle tre “streghe” appare slegata dal dominio del verosimile. Si può ipotizzare che il progetto di Beatrice sia molto simile a quello commissionato a Noé stesso, dal momento in cui il setting irrealistico rimanda idealmente alla libertà espressiva di forme audiovisive come il videoclip e il video promozionale/spot20, che consentono il distacco da una totale aderenza al verosimile. Maxime si sofferma spesso sul carattere “artistico” del progetto che vuole portare avanti: in ciò si potrebbe leggere non solo una conferma del carattere sperimentale-artistico di Oeuvre de Dieu, ma anche il segno di una pianificazione dell’“attentato stroboscopico” contro il film.

Ma qual è l’“opera di Dio” del titolo? Essa può essere intesa come l’opera di Maxime21 che decide di punire la “strega” non professionale Beatrice Dalle, dimostrando di essere un vero regista, capace di immortalare vero dolore. Maxime prende le redini di un progetto pericolosamente instabile e informe, “dio” (o “Prometeo”?) della produzione; per elevare il livello artistico del film non esita a violare i diritti delle attrici e a prendere illecito possesso dell’intera macchina produttiva. I cartigli citazionistici appaiono dunque diretta emanazione del punto di vista del direttore della fotografia: Maxime si fa portatore del potere legislativo ed esecutivo del “padre”, forte del lascito di tanti maestri del cinema (tutti uomini), primo su tutti il suo mentore Jean-Luc (Godard). Il suo intento è portare “qualità” alla produzione, ma al di là della ferrea disciplina ciò in cosa si esplica? La vittoria del cinema come arte, per Maxime, è il raggiungimento della rappresentazione di un pathos reale sullo schermo, lì dove invece il set di Œuvre de Dieu appare dominato dall’irrealtà.

L’atto di Maxime è certo riprovevole, ma Noé sembra celebrarne le conseguenze artistiche: anche se viene già fatto presagire un “ritorno all’ordine” dopo l’incidente, il film si interrompe con Charlotte che “brucia”, sulle note della Marcia funebre di Chopin riarrangiata da un’orchestra. Almeno due elementi suggeriti dal testo filmico complicano ulteriormente il quadro analitico:

  • Il meccanismo di controllo della figura femminile attuato tramite sguardo distanziante, che Laura Mulvey categorizza nel suo celebre saggio Cinema e piacere visivo come “voyeurismo”, risulta potenziato dalla coincidenza, specialmente negli ultimi minuti del film, tra lo sguardo dell’enunciatore e quello della camera del DOP; ed è anche vero che lo sguardo dell’enunciatore riprende (e aggredisce, metaforicamente) non solo Charlotte, ma anche Beatrice, a sua volta condannata (professionalmente) in quanto “strega”, artista non rigorosa e professionale. Lo sguardo destinato a Charlotte e Beatrice, tuttavia, è anche uno sguardo che le potenzia: la luce stroboscopica, come approfondito nelle note conclusive sul flicker, trasfigura entrambe le attrici.
  • Lo sguardo di Maxime non totalizza il film e, soprattutto, è minato da una forte carica ironica. La capacità dello sguardo dell’enunciatore non solo di mimetizzarsi, ma anche di mutare aspect ratio spinge lo spettatore a domandarsi su chi produce lo sguardo: è un intervento autoriale invasivo ma che comporta uno sganciamento dal “modo”, dall’orizzonte cognitivo ed emozionale di Maxime. Sull’ironia, Noé è solito accostare opinioni forti totalmente discordanti, offrendo al pubblico spunti critici, tesi e antitesi a confronto.

 

Sulla base di questa analisi, si può concludere che il penultimo film di Noé impieghi nuovamente la violenza per condurre lo spettatore verso una verità “altra”: il fine in questo caso è una profonda riflessione sul cinema. Questa riflessione passa principalmente attraverso il binomio realtà/rappresentazione, e ha il suo apice nella “deflagrazione” di Charlotte. Le luci rosse, blu e verdi non aggrediscono soltanto l’attrice, ma la modellano: l’attrice diviene un corpo astratto, quasi una silhouette che riprende l’iconografia canonica del San Sebastiano delle rappresentazioni pittoriche dell’arte moderna.

Possiamo meglio comprendere cosa questo comporti prendendo come riferimento Cinema 2 di Gilles Deleuze. Le luci strobo, unite a suoni ad alte frequenze, causano un sismico “crollo degli schemi senso-motori” per lo spettatore, che Deleuze riconduce alle potenze del falso nelle immagini-tempo22. Il tempo diviene cronico, la visione sostituisce del tutto l’azione, dal possibile procede l’impossibile. «Io è un altro»23: le potenze del falso comportano la perdita dell’individuo all’interno di un presente in cui coesistono “altri presenti” (compare a un certo punto la croce del Dies Irae di Dreyer).

Note sulla stroboscopia

Il veicolo principale della psichedelia (dall’unione delle parole greche “psychè” e “dêlos”: “psiche manifesta”) in Noé è il flicker, la luce stroboscopica. Essa assume significati specifici sempre diversi nei suoi film, ma che hanno sempre, in qualche modo, a che fare con una rivelazione, con una “verità nascosta”. In Lux Æterna, che può essere considerato a pieno titolo un film celebrativo della storia del cinema, il valore liminale dell’immagine stroboscopica si unisce alla propria funzione metacinematografica: l’intermittenza diventa manifesto di un modo di concepire l’immagine in movimento. I frame neri che puntellano l’immagine, dando vita all’effetto stroboscopico, emulano il funzionamento stesso dell’otturatore della macchina da presa, che si chiude e si apre a intervalli regolari. La prima forma di movimento è l’alternarsi di luce e buio; Noé cerca di indagare l’origine del film, e lo fa inquadrando un atto crudele e gratuito.

Il flicker è anche esperienza che connette al divino: in Enter the Void, ad esempio, l’immagine pulsante è segno dell’avvicinarsi della morte. A questo proposito occorre citare un cortometraggio, dalla bizzarra storia produttiva, che Noé rilascia insieme a Lux Æterna per le proiezioni ai festival del 2020, The Art of Filmaking. Il corto presenta immagini da King of the Kings di Cecil B. DeMille, lampeggianti con gli stessi colori di Lux Æterna, mentre una voice over non accreditata sussurra agli spettatori di rilassarsi24. Ancora una volta, più che alla presenza del divino, assistiamo a una sostituzione del divino: protagonista è la macchina da presa stessa, analizzata sperimentalmente nel proprio funzionamento25 ma allo stesso tempo messa in relazione a un essere vivente. Si torna al cinéma du corps: il corpo è il punto nodale, come viene rimarcato in Lux Æterna delineando quello delle tre attrici al palo con luci stroboscopiche puntate ora frontalmente, ora di lato, ora come back light. Vere e proprie “cascate di luce” rendono dapprima il corpo delle modelle il centro dell’azione (le luci inizialmente si mescolano tra loro: il rosso come back e il blu come luce frontale, il verde come back e il rosso come frontale, ad esempio) e poi lo allontanano, attirando l’attenzione sullo schermo stesso. La comparsa di Charlotte diviene, al pari della croce del Dies Irae, fantasmatica, a sua volta intermittente: il corpo viene smaterializzato, mentre cessano le grida dell’attrice. Come già precedentemente dimostrato la “strega” ha la propria rivincita dal momento in cui si impadronisce dello stesso mezzo che la consuma. L’estasi diviene momento di rovesciamento delle posizioni di forza: Maxime non è più un aggressore, e la sua voce si fa sempre più flebile; Charlotte abbraccia la propria “croce”, fiera del proprio “martirio”.

Quanto vediamo sullo schermo è molto simile al finale di Irma Vep di Olivier Assayas, a sua volta annoverato tra i registi du corps, nella misura in cui un “metafilm” su una produzione tormentata viene abbandonato per dar vita a un prodotto altamente sperimentale. In entrambi i casi tutta la tensione accumulata nel film da parte dei membri del cast si “sfoga” in un finale senza regole, in cui il corpo dell’attrice viene elevato all’ennesima potenza grazie a strumenti primigeni del cinema (in Irma Vep i tagli della pellicola, in Lux Æterna il flicker).

Bibliografia

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Bogutskaya Anna (2018), Disco Inferno, «Sight and Sound», a. 28, n. 10.

Chang Justin (2022), Review: Gaspar Noé is up to his old tricks, and some new ones, with ‘Vortex’ and ‘Lux Aeterna’, «The Los Angeles Times», May 6 2022.

Deleuze Gilles (1985), Cinéma 2 – L’Image-temps, Paris, Les Éditions de Minuit (trad. it. di L. Rampello, Cinema 2 – L’immagine-tempo, Milano 1989, Ubulibri).

Palmer Tim (2014), Irreversible, London, Red Globe Press (Macmillan International Higher Education).

Quandt James (2004), Flesh & Blood: sex and violence in recent French cinema, «Artforum», vol. 42, n. 6, February 2004.

Mulvey Laura (2013), Cinema e piacere visivo¸ a cura di V. Pravadello, Roma, Bulzoni.

Rouyer Philippe (2020), Lux æterna, «Positif», n. 716.

«Sorcières, secrets et stroboscopes | Gaspar Noé: “Lux Aeterna” | L’Entretien | SensCritique», consultato il 15/11/2022, URL: <https://www.youtube.com/watch?v=EAqn_iHW9fk>.

Note

  1. 1 Bogutskaya A., Disco Inferno, in «Sight and Sound», a. 28, n. 10, October 2018.
  2. Il regista aveva già realizzato due documentari brevi, SIDA (2007) e il perduto Fleurs (1990).
  3. Reperibile su https://www.ysl.com/it-it/introduction-saint-laurent-self
  4. Questa etichetta sostituisce quella precedente (ma tuttora diffusa) di New French Extremity, introdotta da James Quandt sulle pagine di Artforum, un’etichetta che pecca di riduzionismo dei caratteri di questi film a una mera “estremità” spettacolare.
  5. Centre national du cinéma et de l’image animée.
  6. In parte memore di Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa, 1971) di W. R. Fassbinder, in cui il cast del film fittizio Patria O Muerte è abbandonato a sé. Noé, d’altronde, cita spesso Fassbinder tra i registi parte del proprio bagaglio culturale.
  7. L’attrice Anna Svierkier sarebbe rimasta legata alla scala del rogo per più di due ore.
  8. Il commento alle immagini di Häxan, di dui Noé dispone molto liberamente, non appartiene come al film originale, muto.
  9. Un set televisivo, dice l’assistente alla regia Clara (Clara Deshayes).
  10. Questa scelta appare molto rilevante, dal momento in cui schermi al led fotorealistici, che riprendono la tradizione del trasparente, hanno recentemente fatto il loro ingresso ad Hollywood, ad esempio con lo Stagecraft usato sul set della serie The Mandalorian. Lo schermo di Lux Æterna, invece, coerentemente con il progetto  di Noé, è tutt’altro che “realistico”.
  11. Karl Glusman, presente anche in Lux Æterna come si avrà modo di approfondire.
  12. «L’occhio era nella tomba e fissava Caino».
  13. Macchina da presa.
  14. Il rapporto tra Noé e i critici è sempre stato abbastanza problematico.
  15. Prefigurazione della deflagrazione stroboscopica causata da Maxime di lì a venire.
  16. «Charlotte! Lo fai per Dio o per me?».
  17. Director Of Photography.
  18. «Grazie a Dio sono ateo»: è citazione non puntuale.
  19. Parlando di cinema di poesia inevitabilmente il pensiero va a Pasolini, un altro autore molto caro a Noé e citato anche nei titoli di coda.
  20. Tra l’altro la collaborazione con Saint-Laurent continua anche dopo Lux proprio con uno spot pubblicitario che prende il nome di Summer of ’21; esso presenta le stesse soluzioni stilistiche di Lux dello split screen e della camera pedinatrice e usa un’altra star rinomata, Charlotte Rampling, per creare un virtuoso e creativo gioco di citazioni.
  21. Anche il nome è omen, pur essendo Maxime il nome dell’attore nella vita reale. Una fortuita coincidenza?
  22. Cfr. Deleuze (1985) Cinéma 2 – L’Image-temps, Les Éditions de Minuit, Paris (tr. it. di L. Rampello, Cinema 2 – L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989).
  23. Deleuze riprende la celebre citazione di Rimbaud all’interno dello stesso capitolo.
  24. Il titolo originale di Lux doveva essere Rəlax.
  25. Come avviene nei due film che per primi hanno introdotto Noé alla stroboscopia, The Flicker (Tony Conrad, 1966) e N:O:T:H:I:N:G (Paul Sharits, 1968).
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