Voci di migranti tra narratività e oralità: un’esperienza sensibile nel romanzo Patricia di Geneviève Damas

Questo articolo esplora l’universo del romanzo Patricia di Geneviève Damas, un testo che si colloca nell’ambito della cosiddetta letteratura impegnata. Attraverso la sua scrittura, l’autrice sembra, infatti, voler incoraggiare un cambiamento collettivo che scaturisce innanzitutto dal suo personale coinvolgimento e da un forte senso di responsabilità rispetto a questioni sociali, oltre che artistiche e letterarie.

Nella prima parte, si presenta l’opera e si illustrano le motivazioni che spingono l’autrice a voler agire concretamente sul contesto sociale, rivendicando – attraverso la sua opera – una maggiore adesione alla realtà. In seguito, la ricerca si concentra sulla traduzione del romanzo, per cui si espone l’approccio metodologico e si descrivono gli strumenti adoperati nel processo di creazione del metatesto. Si analizzano, poi, alcuni fenomeni peculiari del testo da una prospettiva linguistica e culturale, discutendo e analizzando alcuni passaggi significativi. Per concludere, si riportano alcune riflessioni finali maturate durante e in seguito al processo di traduzione dell’opera.

Introduzione all’opera

L’accoglienza distaccata e la diffidenza – che a volte si trasforma in ostilità – sembrano essere le uniche modalità attraverso le quali viene affrontato attualmente il complesso fenomeno delle migrazioni, che interessa il mondo globalizzato. In quest’ottica, il genere narrativo può costituire un valido strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla tragica realtà dei migranti, contribuendo a sviluppare una maggiore consapevolezza riguardo ad alcune questioni sociali molto spesso ignorate, se non addirittura percepite come una minaccia per l’individuo e la comunità.

Il dramma dei migranti in continua lotta per la sopravvivenza costituisce il tema focale del romanzo Patricia dell’autrice belga Geneviève Damas. L’opera racconta, con un tono corale e un vivido realismo, una storia tanto attuale quanto verosimile e, oltre alla mera funzione narrativa, si contraddistingue per un’ulteriore finalità comunicativa, individuata nella funzione informativa. Infatti, l’opera diventa una vera e propria forma di comunicazione e mediazione culturale: l’intenzione dell’autrice è di condurre il lettore in una realtà diversa da quella conosciuta, facendo emergere dalla narrazione tutte le dinamiche che spingono un migrante ad abbandonare il proprio paese e a lasciarvi i propri cari. In tal modo, il lettore è portato a modificare le proprie rappresentazioni riguardo ai migranti, contribuendo ad abbattere gli stereotipi intorno al presunto legame tra movimenti migratori e incremento della criminalità e dell’illegalità1.

L’autrice, inoltre, secondo quanto afferma in un’intervista resa al quotidiano Le Soir2, ritiene di essere moralmente debitrice nei confronti del continente africano, ricordando i crimini compiuti dai belgi ai danni del Congo che, durante il XIX secolo, fu oggetto di mire espansionistiche da parte del re Leopoldo II del Belgio, e conobbe un periodo di dominazione caratterizzato da una politica di oppressione e dallo sfruttamento intensivo delle immense ricchezze del sottosuolo.

La traduzione italiana del romanzo è orientata sul lettore modello del metatesto, che si inserisce in un contesto culturale e socio-politico non molto diverso da quello belga. Anche l’Italia, infatti, è stata protagonista di una politica coloniale ai danni di alcuni paesi africani ed è pertanto fortemente coinvolta nelle dinamiche che riguardano i fenomeni migratori. Il lettore modello della traduzione è stato dunque individuato nei lettori italiani, la cui cultura è caratterizzata da un passato storico per certi aspetti speculare a quello del Belgio.

Metodo e strumenti

L’universo del romanzo Patricia di G. Damas è costellato da diverse etnie e culture, ma anche lingue e categorie di pensiero che riguardano numerosi settori della civiltà e del sapere. La traduzione del testo originale, che rappresenta l’obiettivo dell’intero lavoro di ricerca, deve inevitabilmente tenere conto di diversi fattori che influiscono sul processo di trasposizione e riguardano fenomeni non soltanto linguistici ma anche culturali. Non a caso, già negli anni 1920 e 1940, i ricercatori Mathesius e Procházka sostenevano che la traduzione non fosse da considerare come un processo di mera sostituzione linguistica, ma consistesse invece in una sostituzione funzionale degli elementi culturali, conservando il significato principale dell’opera (Popovič 2006: 35).

La multiculturalità del romanzo e l’eterogeneità dei contenuti costituiscono un punto di forza dell’opera. Questi due aspetti hanno imposto un accurato lavoro di ricerca – riguardante in particolar modo il processo di traduzione – che non implica soltanto una riflessione linguistica. Ad esempio, si sono affrontati ambiti culturali specifici come la cucina, la religione, l’istruzione o la geografia.

La metodologia scelta per la traduzione del romanzo si basa, innanzitutto, su una preliminare e accurata analisi linguistica dei vari fenomeni riscontrati nel testo a livello morfosintattico, lessicale e stilistico. Nell’analisi del corpus, si è deciso di riportare degli estratti significativi di cui è stata proposta una traduzione a fronte, successivamente analizzata e commentata.

In una prima fase di lettura e approccio al testo originale, è stato quindi essenziale l’uso di dizionari monolingui francesi, di dizionari bilingui francese-italiano e monolingui italiani. Inoltre, si è revisionato il metatesto attraverso l’uso del Dizionario delle Collocazioni, il Dizionario dei Sinonimi e Contrari, il Dizionario dei Modi di Dire, grammatiche ed enciclopedie. Si è ricorso, infine, alla ricerca per immagini disponibili in rete, le cui fonti sono state verificate, che hanno consentito di disambiguare alcuni riferimenti alla vita materiale, come ad esempio termini che rimandano alla cultura africana e designano alimenti o piatti tradizionali.

La traduzione del romanzo, inoltre, scaturisce dalla volontà di considerare l’opera come un discorso letterario che è soprattutto uno strumento per divulgare un messaggio dal valore ecumenico, la cui integrità è da ricercare nella leggibilità e nell’immediata fruibilità da parte del lettore. Per questo motivo, si è cercato per quanto possibile di non alterare le scelte stilistiche dell’autrice, garantendo al lettore della traduzione la stessa funzione espressiva e documentativa del testo originale.

Analisi contrastiva dei fenomeni prototipici del romanzo

Di particolare interesse, ai fini della traduzione del romanzo, è lo stile narrativo dell’autrice che, a tratti, possiamo definire cinematografico, poiché il linguaggio verbale si modella sulle caratteristiche di una sceneggiatura filmica, per rappresentare adeguatamente i dati concreti e visibili, i fatti, le azioni, le persone, le cose e gli spazi, tutto ciò che è raffigurabile su uno schema cinematografico, aiutando il lettore a visualizzare il racconto letterario come se fosse un film (Brandi 2007).

Il testo, quindi, permette al lettore di vedere delle immagini che nascono dalla narrazione e si incrociano le une con le altre. Questo fenomeno – detto ipotiposi – è ampiamente documentato nei trattati di retorica classica e, come suggerisce anche Umberto Eco (2019: 197), permette di creare un effetto visivo attraverso l’uso delle parole.

La visualizzazione è una delle caratteristiche principali della «narrazione per immagini», di cui si riporta una scena significativa tratta dal testo originale, con la corrispettiva proposta di traduzione. In questo caso, le parole di uno dei personaggi vittima di un naufragio fanno nascere la visione dello spazio in cui accade l’evento:

Trop d’images se pressent dans ma tête. Des images d’avant que je ne parviens pas à repousser. Le bleu de l’eau, le brun de la terre, le brillant du soleil, et toujours du rouge, du rouge, du rouge. Troppe immagini si comprimono nella mia mente. Immagini del passato che non riesco a scacciare. Il blu dell’acqua, il marrone della terra, lo splendore del sole. Poi il rosso dovunque. Rosso. Rosso.

Nella traduzione, in questo caso, si è reso tête con «mente» perché le percezioni cromatiche insite nella memoria del personaggio che consentono di evocare una scena del passato, rivivendola, avvengono a livello mentale e immaginativo. Inoltre, si è modificato l’uso della punteggiatura al fine di dare una maggiore enfasi al colore rosso nella traduzione: esso ha chiaramente un significativo e suggestivo valore simbolico. Il rosso, infatti, è funzionale nel rievocare nella mente del personaggio immagini di morte, sangue e dolore e, analogamente, il lettore osserva nella propria mente una scena nitida e visibile. Le immagini sono evocate immediatamente dalle parole in modo fluido e diretto, senza filtri o retorica, conferendo al romanzo un certo realismo.

Un altro aspetto rilevante per l’attività di traduzione del testo riguarda il fatto che l’universo della scrittura convive ormai da tempo con quello dell’oralità, per cui non sempre c’è una netta demarcazione tra i testi scritti e quelli che si avvicinano al parlato, tentando di riprodurlo. Questo spiega almeno in parte perché il romanzo Patricia è fortemente caratterizzato da una patina di oralità con cui interagisce la scrittura: il testo è scritto per essere letto integralmente come se fosse detto.

La scrittura orale del romanzo è spoglia e disadorna, contrassegnata da una dimensione di colloquialità e spontaneità e da un linguaggio che si adatta al contesto della vita quotidiana in cui si immergono i personaggi. Si tratta di quello che viene definito come «parlato-scritto», che tende a riprodurre il parlato reale in modo linguisticamente verosimile rispetto al contesto e alle situazioni sociali in cui agiscono i personaggi nel romanzo (Lavinio 2011: 9).

La storia è così strutturata in tre lunghi monologhi in cui ogni personaggio, che narra una versione di quanto accade esclusivamente dal proprio punto di vista, si rivolge ad un altro che teoricamente rimane in ascolto, un interlocutore muto, che non interagisce in alcun modo, come osserviamo nel passo seguente:

Je ne me sens pas la force de te rattraper, j’ai juste envie de dormir, je me dis tant pis, j’ai atteint le bout du bout, j’en ai assez fait aujourd’hui pour cette enfant que je ne connaissais pas hier encore, et pour son père et pour tout le monde, j’ai eu mon content d’enfer, ça m’est égal ce qui arrive, ça m’est égal la catastrophe, cela ne me concerne plus, et elle monte en moi cette pensée à laquelle je ne voulais pas donner corps depuis que Jean Iritimbi m’a demandé de te prendre avec moi : j’aurais dû dire non, j’ai fait une belle connerie, que me suis-je imaginé ? Que je pouvais te sauver ? Réparer le désastre ? Qui suis-je pour réparer quoi que ce soit, moi, la Blanche, qui ai osé aimer ton père ? Je pressens que la vie à tes côtés sera impossible, un vrai cataclysme. Ancora non me la sento di perdonarti, voglio solo dormire, devo avere pazienza, ho davvero toccato il fondo, per oggi ho fatto abbastanza per questa bambina che fino a ieri neanche conoscevo, per suo padre e per tutti, sono stata sopraffatta da un incubo, non m’interessa cosa succede, non mi importa la catastrofe, ormai non mi riguarda, e sorge dentro di me quel pensiero a cui non volevo dar forma da quando Jean Iritimbi mi ha chiesto di portarti con me: avrei dovuto dire di no, ho fatto una grande stronzata, che mi credevo? Che avrei potuto salvarti? Rimediare al disastro? Chi sono io per porre riparo a chissà cosa, la bianca, io che ho osato amare tuo padre? Sento che la vita con te sarà impossibile, proprio catastrofica.

La scrittura orale che contraddistingue questo monologo rappresenta un momento di tensione narrativa: mille interrogativi attraversano la mente del personaggio e il suo arrovellarsi è visibile nel ritmo serrato, con frasi concise e un’organizzazione strutturale libera e fluida, che simula quella del parlato. C’è una netta prevalenza dello stile paratattico in cui si nota una predilezione per una sintassi additiva, che consiste nella giustapposizione delle frasi tramite una coordinazione per asindeto, talvolta associata all’uso di congiunzioni coordinanti.

Per di più, l’influsso del parlato nella scena è dato dalla presenza di alcuni elementi che lo caratterizzano. Innanzitutto, troviamo l’uso pronominale di ça, che è un equivalente di cela nel registro colloquiale (Gadet 1992: 67) e che, in questo caso, analogamente a quanto accade nel parlato spontaneo, assume una funzione cataforica di introduzione di ciò che viene detto in seguito (Cadiot 1988: 78). Esso si colloca, inoltre, all’interno di strutture frastiche marcate rispetto allo standard (ça m’est égal ce qui arrive, ça m’est égal la catastrophe).

Inoltre, viene impiegato un uso figurato della lingua tramite il ricorso ad un modo di dire ricorrente nel parlato spontaneo (j’ai eu mon content d’enfer) e a un termine che appartiene al registro familiare, a tratti volgare (connerie).

Nella traduzione, si è aderito fedelmente allo stile dell’autrice, che si connota di una valenza espressiva, e si è voluto riportare analogamente il rapido susseguirsi delle frasi del testo di partenza: la riproduzione dell’oralità del testo scritto è associata a un ritmo più veloce che non viene modificato, ad esempio, con l’unione delle frasi in un unico periodo oppure, al contrario, isolandole tramite un uso diverso della punteggiatura.

Così, la traduzione è caratterizzata da una prosa nervosa, un ritmo incalzante e frammentato che preserva l’intenzione dell’originale di esprimere l’insofferenza del personaggio. La ramificazione sintattica riflette uno stato d’animo che quasi rasenta la rabbia e la disperazione e, inoltre, implica il valore estetico di dinamicità della scrittura, che risente del parlato spontaneo, convulso e dal tono cadenzato del personaggio.

Tuttavia, si è optato per una traduzione non letterale di alcune espressioni per rendere il metatesto scorrevole, che quindi viene resa con l’impiego di una strategia di traduzione obliqua, ovvero la modulazione. Essa consiste nel modificare una categoria di pensiero che ci è data in base a come la nostra lingua organizza la visione dell’universo che ci circonda: così, a una variazione di una determinata visione corrisponde una modulazione del discorso (Podeur 2002: 71). Ad esempio, immaginando quello che un parlante nativo della cultura ricevente potrebbe adoperare in un contesto simile, si è modulata l’espressione je me dis tant pis con «devo avere pazienza», veicolando lo stesso significato dell’originale.

Al fine di attuare una resa più fluida e rafforzare il significato dell’originale, si è reso inizialmente il sintagma un vrai cataclysme con la trasposizione della categoria grammaticale dell’aggettivo vrai nel corrispettivo avverbio «davvero» e del nome cataclysme nell’aggettivo «catastrofico». Tuttavia, la scelta definitiva è stata di utilizzare l’avverbio «proprio» – come sinonimo di «davvero» – nel metatesto con funzione rafforzativa dell’aggettivo davanti a cui è posto («proprio catastrofico»).

Poiché la scrittura presenta forti interazioni con il parlato, il discorso dei personaggi risulta di conseguenza meno strutturato e pianificato. La traduzione del prototesto non altera in modo significativo questo importante aspetto legato alla sintassi del parlato, che si mantiene fedele all’originale laddove si presentano delle costruzioni sintattiche marcate, e cioè in cui l’ordine – analogamente a quanto avviene nel parlato spontaneo – devia dalla norma e non è quindi conforme a quello standard degli elementi che costituiscono una frase sul pianto sintagmatico (Ferrari, Zampese 2016).

Un esempio in cui si riscontra l’oralità della scrittura, veicolata dall’uso di un’espressione marcata, in cui si dà una particolare enfasi ad un elemento, è quella che segue:

La vraie richesse, c’est de rester avec ceux que l’on aime. Ciò che conta veramente è restare con coloro che amiamo.

Non volendo ricorrere nel metatesto ad un calco lessicale («la vera ricchezza») sul modello francese (la vraie richesse), si è preferito riprodurre l’oralità attraverso l’impiego di una frase marcata che è utilizzata nel linguaggio parlato. Si tratta della frase pseudoscissa, in cui il pronome relativo, preceduto da un dimostrativo, introduce una frase subordinata in posizione iniziale, seguita dalla reggente con il verbo essere in funzione di copula.

Un ulteriore procedimento traduttivo che è stato applicato in questo caso è quello rappresentato dalla trasposizione aggettivo-avverbio, che consiste nel sostituire una categoria grammaticale con un’altra. Qui l’aggettivo vraie viene trasposto nell’avverbio «veramente» in italiano. Il significato della frase è comunque mantenuto, enfatizzando sul senso dell’originale: le persone che amiamo costituiscono una ricchezza, qualcosa che per noi ha valore e importanza, che quindi conta.

Un altro esempio di frase marcata tipica del parlato che ritroviamo nel romanzo è quella con dislocazione a destra, come nell’esempio che segue:

Chaque nuit, je l’ai eue, la baraka. La ricevo ogni notte la baraka, la mia benedizione.

In questo caso, il sintagma nucleare è dislocato alla fine della frase e risulta isolato da una pausa che lo precede: nello scritto, è la virgola che segnala la presenza di tale pausa. L’elemento dislocato è, inoltre, anticipato da un pronome clitico che, a differenza della dislocazione a sinistra, non è obbligatorio riportare nella dislocazione a destra. Tuttavia, in questo caso si è scelto di includerlo.

Inoltre, trattandosi di un episodio reiterato nel tempo – comprovato dalla presenza di un riferimento temporale costituito dal complemento chaque nuit – si è convenuto che fosse più opportuno modificare l’uso del tempo verbale dell’originale: essendo un’azione che si ripete ogni notte, si è utilizzato in italiano il «presente abituale», che estende l’azione sia al passato che al futuro3.

Controversa è la traduzione del termine baraka che proviene dall’arabo e significa «abbondanza di Allah». Nel linguaggio comune, simboleggia la prosperità nel denaro, nella famiglia, nei beni e in tutto quello che riconduce al benessere. Avoir la baraka significa avoir de la chance. Tuttavia, si sono scartate le opzioni «ho fortuna/ho avuto fortuna» e «sono fortunato/sono stato fortunato» poiché ritenute riduttive. Di fatto, esse neutralizzano il forte riferimento implicito alla religione islamica contenuto nel termine.

In linea con la strategia di adeguatezza adottata per la traduzione del romanzo, in questo caso il termine dell’originale non è stato eliminato, ma trascritto adoperando l’uso del corsivo, e intervenendo per spiegarne relativamente il significato, che include il riferimento ad un’azione divina. Il motivo è da ricondurre al tentativo di arricchire la coscienza culturale del lettore, che si trova esposto a un termine che molto probabilmente non conosce.

Tuttavia, la questione rimane comunque in sospeso poiché la traduzione del termine baraka con l’italiano «benedizione» è sufficiente soltanto in parte: la benedizione nel Cristianesimo implica la passività di colui che la riceve, di colui che viene benedetto. Ciò esiste anche nell’Islam, ma non si può dire che sia la modalità principale della baraka; al contrario, essa è un’influenza spirituale che richiede necessariamente un atteggiamento attivo e costituisce il luogo o la situazione che «chi sta cercando di salire ad Allah può utilizzare più opportunamente nel suo lavoro interiore. Quindi, tutta la benedizione è baraka, ma non tutta la baraka è benedizione»4.

Eppure, il livello che caratterizza maggiormente il registro informale e colloquiale del racconto dei personaggi nel romanzo è quello lessicale. Benché gli usi parlati dialogici rappresentino l’ambito originario del registro colloquiale, esso non si identifica esclusivamente con la lingua parlata ma si ritrova anche nella lingua legata alla quotidianità privata, in cui si fa uso di termini familiari. Una delle questioni da considerare è, quindi, la traduzione delle parole nel romanzo che appartengono al registro familiare o popolare.

Un esempio è il termine môme, connotato nell’originale da un’accezione velatamente dispregiativa:

«Bien sûr, elle n’est pas handicapée, elle comprend tout, cette môme». «Non è mica mentecatta, quella mocciosetta capisce tutto».

Qui il termine môme non è tradotto, quindi, come «ragazzina» o «bambina», ma con un termine che potesse riprodurre il valore spregiativo e canzonatorio.

A livello lessicale, troviamo nel romanzo anche numerose espressioni idiomatiche che danno luogo ad un problema generale di interpretazione, che viene attuata in modo irregolare – non essendoci coerenza semantica – e non considerando il senso proprio dell’espressione (Gross, 1982: 168-171). La difficoltà maggiore nel tradurre questi idiomi risiede proprio nella loro natura linguistica: si tratta di espressioni convenzionali che si ritrovano nel parlato e sono codificate nell’uso con un significato figurato globale. Si riporta un esempio tratto dal testo e la rispettiva traduzione:

Ma confiance est échaudée, rétive, peut-être à cause de ton père, il y aura toujours en moi un être sur le qui-vive, pensant que tu pourrais prendre les chemins de traverse, me rouler dans la farine, me dépouiller pour te sauver, toi. La mia fiducia è infranta, riluttante, forse per via di tuo padre starò sempre all’erta dentro di me, col pensiero che tu possa ricorrere a sotterfugi, prendermi per i fondelli, ripulirmi per poi squagliartela.

In questa sequenza ritroviamo le espressioni idiomatiche sur le qui-vive, prendre les chemins de traverse, rouler (quelqu’un) dans la farine.

Insistendo sul fatto che la traduzione non consiste nel ricercare delle corrispondenze nella lingua ma, piuttosto, delle equivalenze nel discorso, talvolta si può ricorrere alla tecnica della trasposizione, parafrasando l’espressione idiomatica originale nella lingua di arrivo, tenendo sempre in mente gli aspetti del testo che si considerano pertinenti e, quindi, che devono essere comunicati (Sabban 2016: 299). Pertanto, l’espressione prendre les chemins de traverse viene resa in italiano ricorrendo ad un’espressione che, nel metatesto, non costituisce un idioma.

Nella traduzione, l’ordine degli elementi è parzialmente modificato e si è ricorso ad una trasposizione verbo-nome, trasformando pensant in «col pensiero» che costituisce una forma nominale. Inoltre, si è reso il significato di sauver non come «salvare», ma nel senso di «s’échapper, quitter rapidement l’endroit dans lequel on se trouve»5.

In linea generale, nel metatesto si è deciso di optare per l’adattamento delle espressioni caratterizzate dall’idiomaticità, che vengono rese in italiano con un’espressione equivalente, tenendo sempre in considerazione il contesto di riferimento. Viene modulato il contenuto al fine di ricreare il significato dell’originale, interpretando quindi soltanto il secondo livello di significato di queste locuzioni, e cioè quello fraseologico.

Un’altra questione importante per la traduzione del romanzo riguarda gli elementi non specifici di una determinata cultura. Nel nostro caso, la commistione di culture francofone – quella belga o centrafricana – e della cultura italiana è un aspetto rilevante della storia: buona parte dell’azione del romanzo si svolge in Italia, per cui molti elementi della cultura ricevente, per un processo inverso, vengono proiettati nell’originale. La traduzione degli elementi culturali deve rispettare questa fusione di diverse culture che si incontrano, facendole coesistere in un unico testo che possa, in tal modo, arricchire il lettore ed evitare il rischio di omogeneizzazione delle culture (Osimo 2001: 87). A tal proposito, la strategia traduttiva utilizzata in generale si propone di incasellare gli elementi culturali nuovi – o poco familiari – nella cultura ricevente, non rinunciando però alla resa di un testo che sia comunque comprensibile e appetibile per il lettore.

In linea con la strategia traduttiva fondata sull’adeguatezza, molti dei realia presenti nel romanzo non sono stati tradotti o sostituiti, poiché l’intenzione è di trasferirli fedelmente nella cultura ricevente in quanto elementi peculiari di una cultura diversa, confrontandoli con gli elementi locali e facendo in tal modo maturare una consapevolezza nel lettore sia dell’identità che delle differenze culturali.

La scelta di preservarli nella traduzione consente quindi un ampliamento della visione culturale del lettore, e quel momento di smarrimento che può coglierlo ad una prima lettura ha solo un utile effetto di straniamento: dopotutto, il lettore sa che non si tratta di un romanzo scritto in italiano.

Nel romanzo, si ritrovano dei realia di tipo geografico come elementi della geografia fisica, quali il baobab, un albero caratteristico dell’Africa. Un altro tipo di realia è quello etnografico, che designa elementi culturo-specifici legati in particolare alla vita quotidiana. Nel testo di arrivo, alcuni di essi sono specifici della cultura italiana, come ad esempio trattoria o pizzeria. Altri includono alimenti locali, come il kanda o la ngukassa, una specie di minestra di verdure tipica dell’Africa. Alcuni realia che compaiono nel romanzo designano fenomeni legati alla religione, come la baraka, o il vestiario, come il boubou africano. Altri sono legati alla sfera politico-sociale e comprendono entità territoriali come arrondissement. Per quanto riguarda la vita sociale, c’è un riferimento al collège e, inoltre, compare un elemento specifico dell’ambiente militare, e cioè carabiniere. Infine, nell’originale l’autrice non adatta il termine «carabinieri» alla cultura francofona: esso non viene riportato tramite un calco (carabiniers o gendarmes), ma compare nella forma italiana in corsivo e talvolta al singolare. Nella traduzione del romanzo, i realia caratteristici di una cultura altra non sono sostituiti o eliminati: semmai vengono riportati con l’uso del corsivo e si adotta una posizione intervenzionista che mira a spiegarne il concetto o l’oggetto di riferimento, qualora la comprensione non fosse garantita poiché si tratta di termini troppo lontani dalla cultura di arrivo e, quindi, totalmente sconosciuti.

Conclusioni

Tradurre un testo narrativo è un’esperienza tanto stimolante quanto piena di insidie, se si considera il fatto che il messaggio letterario è indissolubilmente legato alla funzione poetica del linguaggio e non sempre è interpretabile univocamente.

Il fine ultimo dell’opera letteraria è quello di coinvolgere emotivamente il lettore e la priorità consiste nell’alimentare costantemente il suo interesse per la storia che viene raccontata, poiché chi legge è attratto dai temi e dai valori che sono veicolati all’interno del testo e, inoltre, da come essi vengono espressi attraverso lo stile narrativo.

Una delle sfide più impegnative emersa durante il lavoro di traduzione è stata, quindi, quella di mantenere sempre vivo il messaggio trasmesso dall’autrice. I personaggi incorporano nelle loro parole dei significati e dei valori che l’autrice vuole vedere materializzati nel testo dopo averne fatto un’esperienza personale.

Si è lavorato su un testo la cui struttura è originale, poiché esso è costituito da una forma narrativa ibrida che, per certi versi, ricorda quella di un romanzo epistolare, configurandosi come un racconto che sembra quasi debba essere recitato, espresso a voce dai personaggi che parlano tra di loro ma, allo stesso tempo, non si dicono tutto. L’oralità è quindi un aspetto essenziale del romanzo e, pertanto è stato impegnativo ricreare l’illusione della lingua parlata in una narrazione in prima persona, conservando al contempo la letterarietà dello stile narrativo.

Sebbene l’opera sia contraddistinta da un registro prettamente informale che – a vari livelli linguistici – si avvicina al parlato, risultando a un primo impatto semplicistica, in realtà è stato difficile ed essenziale al tempo stesso mantenere intatta la funzione estetica del testo, che veicola quei caratteri che lo rendono un romanzo in quanto genere letterario e non un semplice racconto.

La traduzione è stata orientata su un preciso principio di fondo: considerare sia il testo originale che il testo in italiano come due opere autonome, che coesistono in due lingue diverse per divulgare lo stesso messaggio in contesti socioculturali differenti, ma che si rapportano in modo speculare alla tematica del romanzo.

In particolare, la strategia traduttiva adottata per tradurre il romanzo non aspira a ricercare una equivalenza nel senso più ambiguo del termine, proprio perché in virtù dell’anisomorfismo delle lingue, parlare di equivalenza non serve.

Si è voluto attuare una mediazione tra le differenze culturali che il testo trasmette e, se di equivalenza si deve parlare, si è preferito adottare la proposta di Eco che parla di equivalenza funzionale (Eco 2019), per cui la traduzione deve produrre lo stesso effetto a cui mirava l’originale, cioè il proposito dominante dell’originale.

Il lettore è spronato ad avvicinarsi al testo di partenza consapevole del fatto che si tratta di un elemento della cultura altrui, che non è soltanto quella belga o francese, ma anche quella africana. La traduzione diventa quindi un’occasione per il lettore di immergersi in una realtà altra che irrompe nella normalità, per arricchirsi, durante questa esperienza, di nuovi elementi di una cultura che percepisce come estranea. Così, gli viene data la possibilità di portare con sé qualcosa di questa diversità, e considerarla come un valore aggiunto.

Si è scelto di conservare quante più possibili caratteristiche della cultura altrui, permettendo al lettore di recepire il testo per quello che è: espressione e parte di una cultura estranea alla propria. Il lettore si trova di fronte a un testo che non si inserisce pienamente nelle categorie e negli schemi della propria cultura, ma al contempo ricco di stimoli. Questa strategia traduttiva non deve confondersi con procedimenti che prevedono una traduzione letterale, basata su strutture calcate sul modello dell’originale, poiché così facendo ci si discosta dall’atto traduttivo stesso: il lettore avverte l’errore di una scelta traduttiva, riconosce il nuovo quando si confronta con un modo poco familiare di presentargli qualcosa (Gambier 1997).

Il tentativo di applicare una strategia traduttiva che si fondasse su un approccio straniante si è basato proprio su queste considerazioni. Tuttavia, non sempre è stato possibile applicare lo stesso approccio traduttivo, poiché talvolta si è dovuto optare per un adattamento di alcuni concetti o espressioni che sono peculiari e specifici di una lingua e, di conseguenza, di una cultura, per cui una traduzione non adattata avrebbe comportato una resa inverosimile agli occhi del lettore. Quindi, si è dovuto rinunciare al tentativo di trasporre fedelmente nella traduzione alcune espressioni di cui si fa un uso figurato della lingua, il cui contenuto è espresso inevitabilmente ricorrendo a delle equivalenze concettuali e, quindi, linguistiche.

Pur cercando di far percepire le peculiarità del testo di arrivo, si considera il fatto che alcuni elementi che fanno parte di una cultura sono specifici di quella cultura stessa. Trasporli fedelmente nel testo tradotto è limitante poiché il lettore viene fuorviato e si ritrova a dubitare dell’autonomia dell’opera stessa. Si è cercato, quindi, di non far percepire al lettore un distacco dalla realtà del romanzo per non ricordargli che il testo che legge è in realtà il prodotto di una traduzione.

Queste riflessioni portano alla conclusione che una traduzione del tutto adeguata in realtà non è sufficiente, così come non lo sarebbe in questo caso una traduzione integralmente adattata, poiché la presenza di elementi che rimandano a culture diverse è un tratto essenziale del romanzo e ne costituisce una funzione rilevante ai fini del messaggio che si vuole comunicare.

Bibliografia

Testi primari

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Note

  1. Tratto da una dichiarazione dell’autrice in un’intervista riportata alla Radio Télévision Belge Francophone (RTBF) il 2 novembre 2017.
  2. Cfr. il sito Dailymotion per l’intervista all’autrice.
  3. Cfr. Presente, Indicativo ne La grammatica italiana Treccani.
  4. Il concetto di baraka viene affrontato e discusso ampiamente da Lodovico Zamboni nel suo articolo intitolato La baraka tra ‘Benedizione’ e ‘Influenza spirituale’, pubblicato in «Edizioni Orientamento – Al Qibla».
  5. Definizione tratta dal CNRTL.
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