Introduzione
Memorial do convento, romanzo storico di José Saramago (1922 – 2010), fu pubblicato in Portogallo nel 1982: corre quest’anno il quarantesimo anniversario dalla sua pubblicazione, così come il centenario della nascita del suo straordinario autore. Vincitore del premio Nobel nel 1998, Saramago portò alla ribalta la letteratura portoghese in tutto il mondo. Nei suoi romanzi ci troviamo di fronte a situazioni inaspettate, fantastiche e meravigliose: «con la sua attività poietica, Saramago rimuove le zone di torpore della realtà codificata, le redime dalla loro immobilità consacrata, trasferendole dallo spazio di tempi e di luoghi immoti alla dimensione di una vera e propria crucialità del pensiero e dell’azione etica» (Real 1996: 70). Secondo volume di quello che possiamo definire “ciclo storico” saramaghiano, a seguito di Levantado do Chão (1980), Memorial do convento ne recupera in parte temi e stili, sviluppandoli e ampliandoli: ci troviamo di fronte a un testo complesso, fantastico, «percorso da brividi di rinnovamento sociale e di avveniristico sperimentalismo scientifico» (Stegagno 2000: 14).
L’opera si basa sul racconto della costruzione del maestoso edificio – e convento – di Mafra, voluto da re Don João V di Portogallo nel XVIII secolo, «fabbrica colossale e sfarzosa […] [che] avrebbe occupato per anni migliaia di portoghesi e assorbito incredibili quantità di denaro» (Desti 2017: 275). A queste vicende storiche riportate nel romanzo si intreccia un’altra storia, quella che ha come protagonista Baltasar Mateus, detto il Sette-Soli, ex-soldato privo della mano sinistra che, «dopo aver prestato i suoi servizi alla corona portoghese, dapprima come soldato e poi come muratore dentro la fabbrica di Mafra, morirà in uno dei tanti roghi appiccati per volontà della Santa Inquisizione» (Fersini 2018: 250). A inizio romanzo vediamo questo giovane uomo incamminarsi verso Lisbona, una città definita «porcile» [MC p. 17] , dove si stanno cominciando i lavori per l’edificio di Mafra. E proprio a Lisbona, durante una processione in occasione di un auto da fé, Baltasar incontrerà lo sguardo della giovane Blimunda, fanciulla dotata di poteri straordinari di cui il nostro protagonista si innamorerà. Ancora una volta, però «alla narrazione di base se ne intreccia un’altra, anch’essa rigorosamente storica […], cioè l’ideazione e la costruzione, da parte di un ingegnoso gesuita, della Passarola» (Desti 2017: 277), tradotta con “Uccellaccio” da Rita Desti nell’edizione italiana dell’opera, ossia l’areostato che Bartolomeu Lourenço de Gusmão (Santos 1685 – Toledo 1724) cercò realmente di costruire, nel tentativo di far volare l’uomo. Possiamo dunque dire che il romanzo si snoda attorno a due realizzazioni: da una parte quella del convento di Mafra, prodotta con eccessivo dispendio di denaro e vite umane per soddisfare le esigenze di un re vanaglorioso, simbolo di avidità, arroganza e brama di potere; dall’altra quella della straordinaria Passarola, che concretizza le aspirazioni dei suoi costruttori fautori del progresso, simbolo di saggezza e fiducia nell’evoluzione, una macchina volante per fuggire da un luogo in cui predominano soprusi e vanità.
Dunque, la storia “vera” si interseca a una storia fantastica sotto tutti i punti di vista, ma non per questo meno drammatica e reale. E non solo: personaggi realmente esistiti e storicamente documentati (come Re Giovanni e i membri della famiglia reale portoghese, Padre Bartolomeu Lourenço de Gusmão, Domenico Scarlatti) vengono a trovarsi sullo stesso piano di personaggi frutto dell’ingegno di Saramago. E tanti sono i personaggi che incontriamo nel romanzo, tutti con una loro storia e un loro significato, che collaborano a creare la finzione narrativa del romanzo e contribuiscono a portare alla luce la vera storia, fatta anche di sofferenze, ingiustizie e morte: una storia che non deve finire nell’oblio.
All’interno di questa trama complessa e corale […] la Storia con la ʿsʾ maiuscola è chiamata a fare i conti con se stessa, con i suoi silenzi che ora si arrogano il diritto di parlare, di dire ciò che vedono da dove lo vedono, cioè dal basso della terra sotto cui erano stati sepolti. E, sebbene le storie che emergono dal sottosuolo non siano mai belle, la Storia deve imparare a convivere con esse e le loro ʿbruttezzeʾ […]. E, Memorial do convento, forse, in fondo, non è altro che questo, una sfilata simultanea, a doppia passerella, dove, da un lato, vediamo avanzare il re, la nobiltà tutta e i principi della Chiesa, sulle loro lettighe foderate di velluto cremisi con passamanerie d’oro […], e, dall’altro, Baltasar con le scarpe sfondate e i piedi sporchi […] ; Blimunda avvolta nelle coperte che odorano di corpo e sterco di pecora […]; Padre Bartolomeu correndo come un pazzo a Toledo, dove scappa per non essere catturato ed accusato dal Santo Uffizio di stregoneria e conversione al giudaismo […]; gli agricoltori e gli ex-soldati obbligati a lavorare nella fabbrica di Mafra (Fersini 2018: 253).
Il contesto storico
«Romanzo storico nelle intenzioni e nell’impianto documentario» (Desti 2017: 275), già il titolo rimanda di per sé a un genere legato alla storia, ossia il memoriale. In questo Portogallo settecentesco vedremo principalmente in scena due poteri strettamente legati tra loro, il potere temporale e quello spirituale, entrambi duramente criticati da Saramago. Il contesto spazio-temporale è reso noto sin dalle primissime righe:
Don Giovanni, quinto del nome nella successione dei re, andrà questa notte in camera di sua moglie, donna Maria Anna Giuseppa, che è giunta da più di due anni dall’Austria per dare infami alla corona portoghese e fino ad oggi non ce l’ha fatta a ingravidare. [MC p. 4]
Da subito osserviamo un pungente umorismo nelle parole dell’autore, un’ironia che caratterizzerà l’intero romanzo, arma di critica sociale e storica. Abbiamo visto che la trama ruota attorno alla costruzione del convento di Mafra, un edificio imponente che avrebbe dovuto ricalcare e addirittura superare in splendore e in grandezza palazzi quali il Monastero dell’Escorial spagnolo e la Reggia di Versailles francese. Siamo dunque agli albori del Settecento: per l’esattezza, l’edificazione del convento si colloca tra il 1713 e il 1730. Il Re Giovanni V governò il paese dal 1707 al 1750: fu un periodo lunghissimo, ricco di innovazioni, di ripresa culturale e anche di svariati problemi economici.
Don João ordinò che fosse eretto lo straordinario complesso architettonico di Mafra a pochi chilometri dalla capitale. Il motivo di questa decisione fu un voto fatto dallo stesso sovrano che avrebbe costruito un convento francescano se la sua consorte, Maria Anna d’Asburgo, arciduchessa d’Austria, gli avesse dato un erede. E proprio così Saramago apre il suo romanzo, mostrandoci un re che con «perseveranza» compiva regolarmente, due volte a settimana, il suo dovere coniugale, ma senza risultati:
Che la colpa ricada sul re, neppure pensarlo, primo perché la sterilità non è male degli uomini, ma delle donne e per questo tante volte sono ripudiate, e secondo, tangibil prova, se pur fosse necessaria, perché abbondano nel regno bastardi del real seme e anche ora la fila gira l’angolo. [MC p. 4]
Questa situazione di stallo sarà destinata a mutare. Infatti, poco dopo, vediamo giungere a palazzo reale il vescovo inquisitore seguito da un frate francescano, con una proposta da fare al re:
Ma ecco, entra don Nuno da Cunha, che è il vescovo inquisitore, e porta con sé un vecchio francescano […]. Quello laggiù è frate Antonio de S. José, al quale, parlandogli io della tristezza di vostra maestà poiché non gli dà figli la regina nostra signora, chiesi che raccomandasse vostra maestà a Dio che gli desse successione, ed egli mi rispose che vostra maestà avrà un figlio se lo vorrà e allora gli domandai che volesse dire con così oscure parole […] ed egli mi rispose, parole davvero molto chiare, che se vostra maestà promettesse di erigere un convento nella città di Mafra Dio gli darebbe successione e, dichiarato questo, tacque don Nuno, e fece un segno verso l’arrabita. [MC p. 6]
Sin da subito Saramago sottolinea lo stretto rapporto tra Chiesa e Corona, basato sullo scambio reciproco di favori: per giunta, in questo senso, la critica è rivolta pure ai frati francescani, che tutto stavano facendo tranne inseguire l’ideale di san Francesco:
Con tali precedenti, essendo così ben provvisti i francescani di mezzi per alterare, invertire o accelerare l’ordine naturale delle cose, perfino il grembo renitente della regina obbedirà alla fulminante ingiunzione del miracolo. Tanto più che un convento a Mafra l’ordine di S. Francesco lo sta chiedendo fin dal milleseicentoventiquattro, ancora era re di Portogallo un Filippo spagnolo il quale, benché lo fosse e perciò dovesse dargli solo minime preoccupazioni il proliferare dei frati da queste parti, per i sedici anni che conservò la corona non diede mai il suo assenso. [MC p. 15]
Come è noto, la parola di Francesco d’Assisi divulgava uno stile di vita legato a povertà, carità e umiltà; nei seguaci del Santo era salda l’idea che il mondo intero fosse il loro convento ed essi rifiutavano tutto ciò che era sontuoso e sfarzoso, che simboleggiava potere e ricchezza. È chiaro che il convento di Mafra, per come era stato progettato, fuggiva del tutto gli ideali francescani. E non solo: lo stesso re Giovanni desiderava ardentemente un convento che ricalcasse in stile, dimensioni e magnificenza la basilica di San Pietro in Vaticano.
Il giorno dopo, Giovanni V ha mandato a chiamare l’architetto di Mafra, un certo João Frederico Ludovice […] e gli ha detto senza tergiversare, È mia volontà che sia costruita nel mio regno una chiesa come quella di San Pietro di Roma, e detto questo ha guardato severamente l’artista. Ora, a un re non si dice mai di no, e questo Ludovice […], sa che una vita, per essere ben realizzata, dovrà essere conciliante, soprattutto per chi la viva fra i gradini dell’altare e i gradini del trono. Tuttavia vi sono dei limiti, questo re non sa quello che chiede, è stupido, è ignorante, se crede che la semplice volontà, sia pure reale, faccia nascere un Bramante, un Raffaello, […] se per orecchie portoghesi, Voglio San Pietro, e San Pietro salta fuori fatto, quand’io quel che so fare è solo Mafra, […]. No, maestà, che si rifaccia San Pietro a Lisbona, anche se mi sembra più facile che il mondo raggiunga la sua fine piuttosto che si ripeta la basilica di Roma, Dovrò dunque non soddisfare questa mia volontà. Vostra maestà vivrà eternamente nel ricordo dei suoi sudditi, eternamente vivrà nella gloria dei cieli, ma la memoria non è buon terreno per aprirvi fondamenta, prima a poco a poco cominciano a cadere le pareti, e i cieli sono una sola chiesa dove San Pietro di Roma non conterebbe più di un granello di sabbia […]. [MC p. 211, 212]
Le parole che qui pronuncia l’architetto non sono altro che una condanna alla superba brama del re e, allo stesso tempo, all’ordine francescano: in questo senso Saramago, tramite il personaggio di Ludovice desacralizza l’operato dei frati.
Dunque, da una parte troviamo un re pronto a destinare un convento alla Chiesa, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne derivano, in termini di spese e perdita di vite umane, pur di ottenere in cambio la possibilità di avere un erede. Dall’altra abbiamo un clero corrotto e tutt’altro che portatore di ideali religiosi. Questo legame tra i due ordinamenti viene sottolineato da Saramago con l’obiettivo di svalutare i problemi politici o religiosi e dunque «elevar os afetos, as labutas, as ações profanas ligadas à exemplaridade do casal Baltasar e Blimunda» (Lopes 2005: 114)1.
I lavori per la realizzazione del convento di Mafra impiegarono strenuamente gli operai per quasi trent’anni e mobilitarono «schiavisticamente le energie del Paese» (Stegagno 2000: 14). In questo senso, l’obiettivo del romanzo è raccontare la storia non dal punto di vista della retorica ufficiale di chi finanziò l’impresa, ma da «una prospettiva nuova […] quella segreta dei piccoli lavoratori, umiliati e disprezzati dai “grandi” quando caricarono sulle proprie spalle i pesanti massi scelti dal sovrano per comporre gli edifici promessi a Dio nella fabbrica di Mafra» (Fersini 2018: 249). L’atmosfera ironica che si respira nel romanzo non ha la finalità di ridicolizzare o sminuire i fatti storici, anzi, proprio attraverso il sarcasmo e la satira si prefigge di catturare l’attenzione del lettore per fargli comprendere la realtà degli eventi. Saramago vuole accusare l’operato di un re presuntuoso e ostentatore che non si fece scrupoli a sperperare il denaro, dissanguando sia lo Stato sia gli operai.
Impossibile non notare in Memorial do Convento una dura critica alla Chiesa in quanto istituzione; in particolare, Saramago vuole denunciare il regime di terrore istaurato dalla religione nel Settecento a causa delle persecuzioni del Santo Uffizio. Gli atti inquisitori sono una «presenza costante in tutto il romanzo, nella cui rete finiscono per impigliarsi ad uno ad uno tutti i personaggi; dal debole re Giovanni V, completamente succube del potere ecclesiastico pur nel proprio individuale delirio di grandezza, al gesuita “Volatore”, e ai personaggi di minor livello sociale» (Desti 2017: 278).
E visto che sono passati quasi due anni da quando si è bruciato qualcuno a Lisbona, il Rossio è pieno di gente, due volte in festa, perché è domenica e perché c’è l’auto da fé, non si arriverà mai a capire che cosa piaccia di più agli abitanti, questo o le corride, anche quando si useranno solo queste ultime. [MC p. 33]
L’ironia nel testo è sempre presente per sottolineare momenti drammatici, come in questo caso in cui l’auto da fé viene vissuto dagli abitanti di Lisbona quasi come se fosse una festa o una ricorrenza da non perdere. Si tratta ovviamente di un riso amaro nei confronti di un cattolicesimo bigotto e senza pietà, che piega il popolo ai suoi atti senza senso, rendendolo vittima di scaramanzie e superstizioni e di conseguenza aumentando il suo potere. Ecco perché Saramago dipinge il Portogallo settecentesco come un “paese di folli”:
Viviamo in tempi in cui qualsiasi monaca, come la cosa più naturale del mondo, può incontrare nel chiostro il Bambin Gesù o nel coro un angelo che suona l’arpa, e se è chiusa nella sua cella, dove, per il segreto, sono più corporali le manifestazioni, la tormentano i diavoli scuotendole il letto e così infiacchendole le membra, quelle superiori in modo da farle agitare i seni e quelle inferiori tanto che freme e traspira la fenditura che c’è nel corpo, finestra dell’inferno, se non porta del cielo, questa perché sta godendo, quella perché ha goduto, e a tutto ciò si può credere, ma Baltasar Mateus, il Sette-Soli, non può dire, io ho volato da Lisbona al Monte Junto, lo prenderebbero per pazzo, e sarebbe ancora una fortuna, per così poco non si preoccuperebbe il Santo Uffizio, son cose che da quelle parti non mancano, matti da legare in un paese in cui la pazzia è dilagata. [MC p. 156]
Siamo dunque in un mondo senza senso, governato da personaggi che per nulla si interessano alle sofferenze del popolo e il cui principale interesse è ostentare la propria ricchezza. Analizzando quindi i riprovevoli atti del Santo Uffizio possiamo sostenere che Saramago «apresenta uma análise crítica que, gradualizada entre a ironia e a sátira, torna-se numa vociferante denúncia da sociedade portuguesa referida não só tradicionalmente, mas ainda em relação com a contemporaneidade» (Fonseca 1995: 35)2.
Due sono quindi le forze negative di questo romanzo: da un lato la Corona portoghese, dall’altro il Sant’Uffizio. Ed entrambe queste due energie hanno in un certo senso condannato gli uomini in ugual modo, anche se la prima attraverso il lavoro forzato e la seconda attraverso lo spargimento di sangue e l’oblio della memoria storica (Arnaut 1999: 191).
I personaggi
In questo romanzo, Saramago si serve della storia per dar vita a uno scenario in cui si muovono personaggi senza tempo (Sánchez-Élez 2006: 127). L’ambientazione storica e i personaggi sono al servizio dell’autore e danno voce alla sua visione del mondo. Questo melting pot – per usare un’espressione di Ana Paula Arnaut (1999: 182) – di realtà e immaginazione scardina l’idea di romanzo storico come contesto completo e inalterabile, anzi: questi personaggi non reali trasformano il testo in qualcosa di vitale e in qualche modo contemporaneo.
Uno dei protagonisti di questo romanzo è Baltasar Mateus e ci viene presentato a partire dal IV capitolo:
Questi, che per spavaldo portamento, scrollar di spada e scompagnate vesti, seppure scalzo, sembra soldato, è Baltasar Mateus, il Sette-Soli. È stato dimesso dall’esercito perché ormai non serve più a nulla dopo che gli hanno tagliato la mano sinistra all’altezza del polso, spappolata da una pallottola davanti a Jerez de los Caballeros, nella grande spedizione di undicimila uomini che abbiamo fatto nell’ottobre dell’anno […] [MC p. 21]
Capiamo dunque che il nostro Baltasar ha partecipato alla guerra di successione spagnola, durante la quale ha perduto una mano. Questo soldato mutilato inizia il suo viaggio verso Lisbona, dove non c’è nessuno che lo aspetta:
Sette-Soli, mutilato, camminava verso Lisbona sullo stradone, creditore di una mano sinistra che era rimasta parte in Spagna e parte in Portogallo, per merito di una guerra nella quale si doveva decidere chi si sarebbe seduto sul trono di Spagna, se un Carlo austriaco o un Filippo francese, di portoghesi nessuno, completi o monchi, interi o mutilati, a meno che il lasciare sul campo membra mozzate o vite perdute non sia solo destino di chi ha nome soldato e per sedersi possiede la terra o poco più. […] Non c’è nessuno che lo aspetti a Lisbona, e a Mafra, da dove è partito anni addietro per arruolarsi nella fanteria di sua maestà, se mai suo padre e sua madre si ricordano di lui, lo credono vivo perché non hanno nuove che sia morto, oppure morto perché non ne hanno che sia vivo. [MC p. 22, 23]
La figura di Baltasar è strettamente legata a quella di Blimunda, altra protagonista dell’opera. I suoi occhi incroceranno quelli della giovane fanciulla durante l’esecuzione dell’auto da fé nella piazza del Rossio. E proprio sulla descrizione dello sguardo si focalizza Saramago, perché quello di Blimunda è un modo di vedere molto particolare:
Baltasar Mateus, il Sette-Soli, sta zitto, appena guarda fissamente Blimunda e ogni volta che lei lo guarda, lui sente una stretta alla bocca dello stomaco, perché occhi come questi non si sono mai visti, chiari di grigio, o verde o azzurro, che variano con la luce di fuori o con il pensiero di dentro, e a volte diventano neri notturni o bianchi brillanti come screziato carbone di pietra. [MC p. 37]
Dopo questo incontro avrà inizio la lunga storia d’amore tra i due protagonisti. Il loro sentimento ci viene presentato come puro, intenso e passionale, è un amore libero da ogni regola e limite; in questo senso, la mentalità e il comportamento dei due protagonisti sembrano essere più tipici del Novecento che del Settecento. Infatti, a differenza della coppia Reale, la quale cerca a tutti i costi di avere un figlio, Baltasar e Blimunda non hanno intenzione di procreare: essi si completano da soli, un po’ come il giorno e la notte, e proprio per questo la ragazza sarà in seguito ribattezzata Sette-Lune da Padre Bartolomeu:
Il prete si girò verso di lei, sorrise, guardò l’uno e guardò l’altra e dichiarò, Tu sei Sette-Soli perché vedi alla luce, tu sarai Sette-Lune perché vedi al buio, e così Blimunda che fino ad allora si chiamava solo, come sua madre, de Jesus, divenne Sette-Lune ed era ben battezzata, ché era stato battesimo di prete e non soprannome del primo venuto. Dormirono quella notte i soli e le lune abbracciati, mentre le stelle giravano piano nel cielo, Luna dove sei, Sole dove vai. [MC p. 65]
Abbiamo visto che l’incontro tra i due giovani innamorati avviene per la prima volta in occasione dello svolgimento di un auto da fé. Blimunda si trovava alla processione poiché sua madre stava per essere condannata all’esilio in Angola, in quanto accusata di stregoneria. La figlia, proprio come la madre, è dotata di poteri straordinari: difatti, essa riesce a vedere dentro le cose e dentro le persone. Questo suo eccezionale potere, però, funziona solamente quando essa è a digiuno:
Io posso guardare dentro gli uomini. Sette-Soli si sollevò sul pagliericcio, incredulo, ed anche inquieto, Stai prendendoti gioco di me, nessuno può guardare dentro la gente, Io posso, Non ci credo, Prima l’hai voluto sapere, non ti quietavi fintanto che non lo avessi saputo, ora lo sai e dici che non ci credi, meglio così, ma per il futuro non togliermi il pane, Ci crederò solo se sarai capace di dire quello che c’è dentro di me adesso, Non vedo se non sono a digiuno, inoltre ti ho promesso che a te non ti avrei mai guardato dentro […]. [MC p. 54]
Quella di Blimunda è una capacità straordinaria, una capacità che però deve tenere al sicuro, nascosta, per evitare di essere accusata di stregoneria. Nonostante questo, sarà l’unico personaggio a non essere condannato dal Sant’Uffizio. Di fatto, la stessa sorte non toccherà al suo innamorato: dopo che Baltasar è sparito per nove anni a bordo della Passarola, nove anni in cui Blimunda lo cercherà disperatamente, l’ultimo incontro tra i due, così come avvenne il primo, avverrà durante un altro auto da fé, in cui Baltasar, purtroppo, non sarà uno spettatore ma uno dei condannati:
Per nove anni Blimunda cercò Baltasar […]. Lo trovò. Sei volte era passata per Lisbona, questa era la settima […]. Sono undici i giustiziati. Il rogo è già molto avanti, le facce si distinguono appena. A quell’estremità brucia un uomo cui manca la mano sinistra. Forse perché ha la barba annerita, prodigio cosmetico della fuliggine, sembra più giovane. E una nuvola chiusa sta al centro del suo corpo. Allora Blimunda disse, Vieni. Si distaccò la volontà di Baltasar Sette-Soli, ma non salì alle stelle, se alla terra apparteneva e a Blimunda. [MC cap. XXV]
La coppia formata da Baltasar e Blimunda ci mostra un amore autentico e puro. Ben diversa è la relazione che intercorre tra il re Giovanni V e la regina Maria Anna. Confrontando i due tipi di amore, quello tra i due personaggi inventati e quello tra i due personaggi reali, è inevitabile non accorgersi che quello tra i secondi, rappresentanti dell’ordine e del potere, è un amore di tipo contrattuale: non c’è niente di romantico nella loro unione, ma l’unico scopo è quello di dare un erede alla corona portoghese:
Vestono la regina e il re camicie lunghe, che strusciano sul pavimento, quella del re solo l’orlo ricamato, quella della regina un buon mezzo palmo di più perché nemmeno la punta dei piedi si veda […]. Don Giovanni V conduce donna Marianna verso il letto, la guida per mano come al ballo il cavaliere la dama, e prima di salire gli scalini, ciascuno dalla sua parte, si inginocchiano e dicono le orazioni cautelatrici necessarie perché non abbiano a morire nel momento dell’atto carnale, senza confessione, perché questo nuovo tentativo dia il suo frutto, e su questo punto Giovanni V ha doppie ragioni per sperare, fiducia in Dio e nel suo personale vigore, per ciò sta raddoppiando la fede con cui da quello stesso Dio implora successione. Quanto a donna Marianna, è da credere che stia chiedendo gli stessi favori, se per caso non ha motivi speciali che li dispensino e che siano segreto di confessionale. [MC p. 9]
Il rapporto carnale diventa in questa coppia un mero atto riproduttivo, senza conseguenze emotive né romanticismo. La loro relazione coniugale manca totalmente di affetto e tutto il cerimoniale che inquadra l’incontro tra i due assume l’aspetto di un rito artificiale. Questo amore si oppone totalmente a quello tra Baltasar e Blimunda.
Dal punto di vista religioso, Saramago imposta il suo romanzo su una tenace critica al cattolicesimo come istituzione e alle sue pratiche settecentesche. Lo stesso autore in varie parti dell’opera inserisce cerimoniali e riti che provengono dalla religione per dar vita a nuovo concetto di sacro, traslandolo in un contesto profano e popolare. Ciò è ben visibile nel rapporto tra Baltasar e Blimunda: nella narrazione delle loro vicende spesso sono presenti atti e riti presi in prestito dalla religione cattolica e trasportati così in ambito quotidiano. Per esempio, osserviamo ciò quando Padre Bartolomeu unisce i due giovani in sposi, adeguando la cerimonia al mondo popolare e terreno:
[…] nonostante il padre avesse finito per primo di mangiare, ha atteso che Baltasar terminasse per servirsi del suo cucchiaio, era come se tacendo rispondesse a un’altra domanda, Accetti per la tua bocca il cucchiaio di cui si è servita la bocca di quest’uomo, facendo suo ciò che era tuo e ritornando ora a esser tuo ciò che è stato suo, e per tante volte che si perda il senso del tuo e del mio, e siccome Blimunda aveva già detto sì prima che le venisse fatta la domanda, Allora vi dichiaro sposati. [MC p. 38]
I tre personaggi stanno mangiando una zuppa e Blimunda attende che l’amato finisca la sua porzione per potersi servire con il cucchiaio. Questo piccolissimo e naturale gesto viene così utilizzato da Padre Bartolomeu come simbolo dell’unione tra i due innamorati.
A differenza dei due protagonisti, storicamente esistito è invece il personaggio di Bartolomeu Lourenço de Gusmão (1685-1724), soprannominato il “Voador”. Prete, scienziato e professore all’università di Coimbra, il suo tentativo di volare precedette di più di settant’anni quello dei fratelli Mongolfier, che avvenne solo nel 1783. Bartolomeu Lourenço è un sacerdote, ma nonostante questo si interroga sulla religione e ha le sue idee, come quando parlando con Baltasar afferma che Dio manca della mano sinistra. Questo personaggio rappresenta il sapere e il progresso umano, allo stesso tempo religioso che si interroga sulla religione e scienziato interessato alla scienza. Nonostante la sua fede nell’esistenza di Dio, aspira a volare, a costruire una macchina che sfidi le leggi divine, cosa che agli occhi dell’Inquisizione portoghese era tutt’altro che segno di religiosità. Saramago, attraverso la figura di Padre Bartolomeu Lourenço, ci fa capire che la sua critica alla Chiesa non riguarda la fede in Dio, ma esclusivamente i fondamenti ecclesiastici settecenteschi. Nonostante questo, non si può negare che questo sia un personaggio altamente sovversivo e le sue parole, se pur a prima vista innocue, nascondono uno spirito rivoluzionario:
Non siamo nulla di fronte ai disegni del Signore, se egli sa chi siamo, rassegnati Blimunda, lasciamo a Dio il campo di Dio, non attraversiamo le sue frontiere, veneriamo da questa parte e creiamo il nostro campo, il campo degli uomini, che una volta fatto questo Dio vorrà visitarci, e allora sì che il mondo sarà creato. [MC p. 37]
A un’attenta lettura, questo passo contravviene qualsiasi regola e imposizione dell’istituzione religiosa settecentesca. Il personaggio di Padre Bartolomeu si disancora dai limiti temporali e spaziali in cui è collocato per diventare simbolo assoluto di un pensiero sovversivo ma allo stesso tempo progressista.
Oltre ai singoli personaggi fino a qui analizzati, in Memorial do Convento vi è un altro elemento da osservare, forse il più rilevante in assoluto: il personaggio collettivo del popolo, «inteso come comunità real[e] di persone, ma anche come entità metafisica […] presenza costante negli scritti di Saramago» (Tocco 2011: 270). Si tratta di un personaggio che con le sue caratteristiche si contrappone alla falsità e amoralità della Corona Portoghese. Saramago cerca di esaltare e dare un nome a questo popolo umiliato e maltrattato, a queste persone umili e laboriose, che sono poi il reale motore della storia. Vengono messe in luce le ingiustizie che subiscono gli operai, come vediamo, per esempio, con il personaggio di Francisco Marques, uno dei tanti uomini che lavoravano alla edificazione di Mafra, il quale finirà schiacciato dall’enorme pietra che stava trasportando. Per la costruzione del portico della chiesa, infatti, era stato reso necessario il trasporto di un’enorme pietra che impegnò duramente gli operai. La descrizione dello spostamento di questo masso è sicuramente il momento in cui più di tutti si inquadra e si capisce lo straziante lavoro fisico del popolo:
Seicento uomini aggrappati disperatamente alle dodici funi fissate sulla parte posteriore della piattaforma, seicento uomini che sentivano, con il tempo e lo sforzo, andarsene pian piano la tensione dei muscoli, seicento uomini che erano seicento paure di essere, […] che cosa è un uomo quando è solo la forza che ha, quando non è altro che la paura che non basti questa forza per trattenere il mostro che implacabilmente lo trascina, e tutto per una pietra che non ci sarebbe bisogno che fosse così grande […]. La costruzione del convento di Mafra si deve al re Giovanni V, per un voto fatto se gli fosse nato un figlio, qui ci sono seicento uomini che non hanno fatto fare nessun figlio alla regina e sono loro a pagare il voto, che si attacchino, con licenza per l’anacronistica espressione. [MC p. 194]
Quest’impresa disumana sottolinea l’eroicità del popolo. E tutti questi diventano i veri paladini del Memorial do Convento. Ciò che sta dietro alla costruzione del convento è una storia fatta di sacrifici, sofferenze e morte: quello che la storia ufficiale non racconta. E proprio a questi protagonisti della storia Saramago vuole dare spazio, per mostrare al lettore un’altra faccia della medaglia.
Osservazioni conclusive
Abbiamo visto come José Saramago, all’interno del suo romanzo Memorial do Convento, prediliga un’altra prospettiva di racconto storico che eluda l’ufficialità a cui siamo abituati. Nel mettere in scena la storia del Settecento e nel riesaminarne l’autorevolezza, possiamo percepire una similarità con la storia contemporanea: anche qui, difatti, i potenti governano dal centro attraverso leggi e forze ormai fossilizzate, ristagnando in una mera brama di potere e lusso, mentre il popolo rimane al margine, una periferia da cui però partono idee e atteggiamenti di progresso.
Il monopolio della tradizione è in mano a chi governa e per Saramago questo non è altro che un limite allo sviluppo e al miglioramento del Paese, un Paese non realmente consapevole della “vera” storia e del suo svolgimento. E perciò solo chi sta ai margini può davvero salvare la nazione dall’oblio della memoria. Ogni singolo individuo può farsi portatore di progresso: l’areostato che Padre Bartolomeu, Baltasar e Blimunda costruiscono unendo le loro forze diventa simbolo dell’emancipazione di un popolo intero, sottomesso ai dogmi religiosi e al potere temporale.
Lo scopo del Memoriale del Convento è quello di denunciare gli orrori praticati dall’Inquisizione e dalla Corona Portoghese. Ma non è finita qui: gli stessi errori del passato, purtroppo, si ricommettono nel presente. Lo stesso autore, con il caso del Vangelo secondo Gesù Cristo, sarà vittima di una moderna Inquisizione, la quale censurerà il testo non permettendogli la partecipazione al Premio Letterario Europeo. Perciò, ricordare gli sbagli e le ingiustizie compiute in passato può servire per evitare che gli stessi sbagli e ingiustizie si ripresentino in futuro. Saramago invita così il lettore a riflettere sull’importanza della memoria storica: così come ora si ignorano le vite sacrificate degli operai che lavorarono alla costruzione del convento di Mafra, un giorno si potrebbe dimenticare che durante il salazarismo lo stesso convento fu utilizzato come caserma, all’interno della quale i militari venivano addestrati per combattere in Africa. Esattamente come la storia ufficiale del 1700 ignorava le minoranze e le vicende di chi stava ai margini, accade lo stesso con la storia ufficiale del 1900.
Bibliografia
Romanzo di riferimento
MC = Memoriale del convento, con una Nota editoriale di Rita Desti, traduzione di Rita Desti e Carmen M. Radulet, Milano, Feltrinelli 2017.
Bibliografia generale
Arnaut Ana Paula (1999), The Subversion of History in Memorial do Convento, «Portuguese Studies», vol. 15, p. 182-193.
Fersini Maria Pina (2018), Fare la storia dei margini: L’imperativo categorico di Memorial do convento e La vie des hommes infâmes, «Anamorphosis», vol. 4, p. 241- 277.
Fonseca Pedro (1995), Ironia, sátira e secularização no Memorial Do Convento de José Saramago, «Letras», vol. 43, p. 35-47.
Lopes Marcos Aparecido (2005), Rosário Profano: hermenêutica e dialética em José Saramago, tesi di Dottorato in Teoria e Storia letteraria, Istituto di studi linguistici, São Paulo, Università statale di Campinas.
Oliveira Thiago Maerki (2012), O “jogo de espelhos”: religião, poder e sacralidade no romance Memorial do Convento, «Horizonte», vol. 10, p. 278-297.
Ornelas José (1996), Resisténcia, Espaço e Utopia em Memorial do Convento de José Saramago, «Discursos: estudos de língua e cultura portuguesa», vol. 13, p. 115-133.
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Sánchez-Élez Victoria Navas (2006), Memorial do Convento de José Saramago: en la encrucijada de la novela histórica, «Revista de Filología Románica», vol. 23, p. 123-163.
Saramago Josè (2017), Memoriale del convento, con una Nota editoriale di Rita Desti, traduzione di Rita Desti e Carmen M. Radulet, Milano, Feltrinelli.
― (1990), Neste livro nada é verdade e nada é mentira, intervista concessa a Francisco Vale, «Jornal de Letras, Artes e Ideias», anno IX, n. 354, p. 11-12.
Stegagno Picchio Luciana (2000), José Saramago. Istantanee per un ritratto, Firenze, Passigli Editori.
Tocco Valeria (2011), Breve storia della letteratura portoghese. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, Carocci.
Note
- «elevare gli affetti, le fatiche, le azioni profane legate all’esemplarità della coppia Baltasar e Blimunda».
- «Saramago presenta un’analisi critica che, graduata progressivamente tra ironia e satira, diventa una rumorosa denuncia della società portoghese intesa non solo tradizionalmente, ma anche in relazione alla contemporaneità».